Un’immagine di Portofino dalla collina in quarta di copertina del mio Angloliguria. Da Byron a Hemingway (2017) è opera di Dorothy Shakespear, la «buona e fedele» (Montale) moglie di Ezra Pound, che aveva collaborato a «Blast», la rivista del Vorticismo londinese 1914-’15. Eccola dunque in Riviera dalla fine degli anni venti a scrutare gli archi, l’acqua, le barchette di quel luogo allora idillico. Quasi un feudo inglese. Approfitto dell’immobilità forzata di queste settimane per proporre una visita virtuale a tre ville storiche del posto.
Altachiara
Sopra la piazzetta con i suoi caffè e gelaterie, banchi di pizzi e un tempo di frutta, si vede la Villa Altachiara, italianizzazione di High Clere, dimora britannica dei Conti di Carnarvon a tutti nota da quando divenne il set di Downton Abbey. All’Altachiara vissero gli Herbert, cioè il quarto conte, suo figlio eccentrico diplomatico e il nipote Auberon che molti ancora ricordano come un omaccione cordiale e gran bevitore. Ma vi venne anche il quinto conte, scopritore nel 1922 e si dice vittima del sarcofago di Tutankhamen, e più tardi lo scrittore Evelyn Waugh, orgoglioso, lui borghese convertito al cattolicesimo preriforma, di avere sposato una Herbert (antichissima famiglia cattolica), che nel secondo dopoguerra guardava con sospetto i nuovi proprietari inglesi del Castello Brown («middle class e protestanti!»).
Nell’Altachiara ricordo grandi saloni con mobili comodi e semplici all’inglese, poltrone con vecchie fodere stinte: un accampamento di lusso. Nel giardino ci si poteva affacciare sul mare a perdita d’occhio e sentire le cadenze perfette dei giovani bennati. Si dice che durante la Grande Guerra gli Herbert avessero lasciato un conto aperto in panetteria per i portofinesi, erano dunque in qualche modo i signori del paese, se ne facevano carico. Personaggi di grandi fumatori e bevitori, con facce scavate e rustiche, amati dai contadini con cui a settembre si faceva e festeggiava la vendemmia, andando per le fasce strette e coperte di viti, godendo qua e là uno squarcio di azzurro fra il fogliame. E il profumo del mosto, il vino leggero e il «musciame» (salame di delfino, credo). Il contrasto fra gli ospiti inglesi e le donne liguri che preparavano quei pranzi memorabili.

Castello di San Giorgio
Se prendiamo la pedonale che dalla piazzetta porta al Castello e al Faro, arriviamo subito al Castello di San Giorgio, in realtà un edificio di «due corpi intorno a una torre» (Caterina Olcese Spingardi, Grandi alberghi e ville della Belle Epoque, Sagep 2012). Sulla facciata un diplomatico inglese fece scrivere a grandi lettere alcuni versi Catullo: «O chi più beato di chi torna ai propri lari…». Dal 1910 appartenne ad Alfons von Mumm (1859-1924), barone, diplomatico tedesco (in Cina) e fotografo, che pare organizzasse feste in abiti medievali con la moglie inglese Jeanny. Nel 1915 Mumm pubblica a Berlino un grande libro illustrato, Mein ligurisches Heim, con fotografie di monumenti, paesaggi, tramonti e soprattutto della visita nel 1914 del Kaiser Guglielmo II, accolto festosamente dalla popolazione quando il suo yacht ormeggiò nel porticciolo. Di questo bel volume esiste una versione italiana ben curata, A casa in Liguria (Internòs edizioni, 2015), ed è davvero un pezzo d’epoca, in cui già si lamenta l’urbanizzazione del golfo che sta perdendo il suo aspetto rustico, con la costruzione di grandi alberghi e nuove case. La visita del Kaiser alla vigilia della guerra offre uno sguardo su un’Europa apparentemente civile prima della catastrofe (di cui il Kaiser, ma non solo lui, fu responsabile). Mumm sposò Jeannie Watt (1866-1953) solo nel 1918, e con lei tornò a Portofino e accolse al Castello i diplomatici della Conferenza di Genova e del Trattato di Rapallo (Russia-Germania), fra cui Rathenau, ministro degli esteri di Weimar, che nel libro degli ospiti scrisse (in tedesco) «Grido pace, pace, pace», probabilmente citando Simon Boccanegra. Secondo un appunto di Mumm, Rathenau ottenne «il consenso tumultuoso dei delegati, tranne i francesi». E Rathenau fu ucciso da estremisti di destra il mese dopo.

Castello Brown
Continuiamo la salita oltre la Chiesa di San Gorgio, con grande piazzale e splendida vista sul mare, e passando vicino a quello che fu lo studio di Michele Cascella (famose e forse inflazionate le sue Portofino del dopoguerra) arriviamo al cancello di ingresso del Castello. In origine una fortezza-piattaforma, fu trasformato intorno al 1900 dall’architetto De Andrade per Montagu Brown in una villa con torre circolare, la spianata divenne un giardino all’inglese, fu arredato con mobili istoriati medievaleggianti. Brown, residente a Genova, lo dava in affitto a ospiti più e meno illustri, fra cui Emil Ludwig, biografo di Mussolini, ed Elizabeth von Arnim, che dal soggiorno nell’aprile 1922 trasse spunto per il romanzo Un incantevole aprile. Signore inglesi insoddisfatte si rifanno nel clima «tropicale» dell’aprile ligure – però si guardano bene dal consolarsi con un manente come la loro coetanea Constance Chatterley. Ma l’idea è la stessa, i sensi, il sole, la liberazione… Oggi possiamo salire lo scalone marmoreo piastrellato, e poi nella spaziosa torre, tutti ambienti ben riconoscibili in Un incantevole aprile e in parte nel film che ne derivò nel 1991.
Dal 1943 il Castello divenne sede della guarnigione tedesca, e ricordo una stanzetta adibita a prigione con scritte di detenuti. Nino Palumbo (Giocare di coda, 1967) vi ambienta un fatto della Resistenza, con il colonnello Ernst Reimers, capo della guarnigione, alle prese con un furto di granaglie. Reimers fu protagonista di un celebre episodio che coinvolge i due castelli. Aveva ricevuto l’ordine di minare il porto prima di ritirarsi nell’aprile 1945, e passando a salutare la baronessa Jeannie le raccomandò di lasciare la sua residenza il domani quando le mine sarebbero brillate. Lei gli disse che non se ne sarebbe andata, e Reimers partì senza aver eseguito l’ordine, cosa di cui la ringraziò in una lettera da Livorno dell’ottobre 1945 (forse era prigioniero).
Nel 2013 ci fu una nostra sui Mumm al Castello Brown. Nel libretto del catalogo il testo originale della lettera di Reimers è accompagnato da una traduzione che sa molto di Google (ormai certo farebbe meglio): «Oggi sono contenta di aver seguito il suo consiglio e la distruzione che ho dovuto effettuare in conformità con gli ordini non eseguiti».
Così Portofino fu salva in attesa di altri distruttori. Ma l’acquerello di Dorothy Shakespear ne conserva il vero sapore.