Walter Spies a Bali negli anni venti

 

Nel 1932, dopo Luci della città, Charlie Chaplin si concede una lunga vacanza in Indonesia; visita Giava e soggiorna a Bali. Tra i suoi ricordi di viaggio, annota: «Oggi pranza con noi Walter Spies. È un giovane pittore e musicista russo che da cinque anni vive sull’isola per studiare musica balinese. È un uomo affascinante, tra i ventotto e i trent’anni, che gli indigeni adorano e considerano un padre confessore».
Walter Spies nasce a Mosca nel 1895 in una prospera famiglia di origine tedesca, colta e cosmopolita. Allo scoppio della Prima guerra mondiale viene deportato in un campo di detenzione negli Urali e lì fraternizza con i contadini e i tagliaboschi, apprende il folklore. Quando nel 1917 la Russia si ritira dal conflitto, Walter torna a Mosca ed entra come scenografo all’Opera, forse per intercessione di Maksim Gor’kij; tuttavia il precipitare degli eventi lo spinge a spostarsi in Germania. Raggiunge la famiglia a Dresda e inizia a frequentare la cerchia della Dresdner Sezession, collabora con la scultrice Hedwig Jaenischen Woermann (1879-1960), conosce Oskar Kokoschka e Otto Dix, dipinge ed espone. Nel 1920 si trasferisce nel sobborgo berlinese di Grunewald, dove intreccia una tormentata relazione lavorativa e sentimentale con F. W. Murnau; per quanto rilevante, il suo coinvolgimento nelle creazione di Nosferatu (1922) è oggi misconosciuto. Nonostante le prospettive di carriera artistica, decide di lasciare l’Europa e nell’agosto del 1923 s’imbarca con l’amico scrittore Heinrich Hauser (1901-’55) su un cargo diretto in Indonesia; per pagare il viaggio si fa assumere come marinaio.
Approdato a Batavia (oggi Giacarta) sull’isola di Giava, trasloca quindi a Bandung e nei primi mesi si guadagna da vivere come pianista di cinema. Poi va nell’antica capitale di Yogyakarta, dove lavora presso la residenza del governatore olandese; qui verosimilmente si creano i presupposti del suo ingaggio nel 1924 alla corte del Sultano Hamengkubuwono VIII in qualità di Kapellmeister, ossia direttore di un’orchestrina in stile europeo. A palazzo rimane affascinato dal gamelan, musica tradizionale per gong, xilofoni, flauti e metallofoni. Spies impara a suonare gli strumenti gamelan ed escogita un metodo di notazione di cui purtroppo non resta traccia.
Nel 1927, infine, si trasferisce a Bali, dove l’aristocratico filo-colonialista Tjokorda Gede Sukawati gli concede un’abitazione nei pressi del villaggio di Ubud, a Campuhan, toponimo che letteralmente designa «la confluenza dei due fiumi». La residenza di Walter è a lungo una tappa obbligata nel circuito dei turisti internazionali più raffinati: oltre a Chaplin, vi passano tra gli altri l’etno-musicologo Colin McPhee e la moglie antropologa Jane Belo, l’artista svizzero Theo Meier, l’ereditiera statunitense Barbara Hutton, la scrittrice austriaca Vicki Baum, l’antropologa statunitense Margaret Mead, il caricaturista messicano Miguel Covarrubias (1904-’57) e la moglie artista Rosa Rolanda (1895-1970). Oggi la casa è un albergo di lusso. In definitiva, Spies trascorre quasi vent’anni in Indonesia, studiando musica e teatro, e operando come musicista, coreografo, scenografo, fotografo, pittore, cineasta, naturalista, reporter, guida turistica, albergatore e consulente culturale. Nella variopinta comunità degli occidentali trapiantati, spicca per carisma e talento.
Pittore mai fecondo, Spies deve la propria fama postuma ai dipinti del periodo balinese, suggestivi paesaggi esotici di stile primitivista con i quali ha saputo imprimere un decisivo slancio alla crescita del mercato artistico locale, anch’esso fatalmente legato al flusso turistico. Nel 1936, assieme al nobile Tjokorda Agung Sukawati e all’artista olandese Rudolf Bonnet (1895-1978), fonda Pita Maha (Grande spirito), un’associazione di promozione artistica che diffonde sull’isola un concetto fino ad allora sconosciuto di produzione e commercializzazione dei manufatti. Pita Maha si dissolve con la dipartita di Spies.
Nel 1937, assieme a Beryl de Zoete (1879-1962) – ballerina, studiosa di danza, nonché traduttrice in lingua inglese di Svevo e Moravia – Spies pubblica Dance and Drama in Bali, un testo tuttora importante su danza e teatro balinesi. Il suo contributo alle arti rappresentative è apprezzabile. Per l’Occidente contemporaneo infatti un’immagine caratteristica della cultura balinese è la kecak, o anche «canto delle scimmie», una danza a cui prendono parte decine di ballerini in una stilizzata emulazione dei gesti e dei versi delle scimmie. Di origini ancestrali, la kecak deve la fortuna e forma attuali proprio a Spies, che insieme al ballerino Wayan Limbak (1897-2003) ha coreografato il balletto reso celebre dal film tedesco Die Insel der Dämonen (1933). Spies è co-sceneggiatore e direttore artistico della pellicola; e già in precedenza era stato fondamentale nella realizzazione di Goona Goona (o Kriss, 1931), storia di amore e stregoneria che, nonostante la censura, negli USA riscosse un notevole successo. «La remota isoletta di Bali è diventata nota al resto del mondo occidentale solo con l’avvento, risalente a qualche anno fa, di una serie di documentari con una forte enfasi sul sex appeal. Questi film sono stati una rivelazione e ora tutti sanno che le ragazze balinesi hanno corpi bellissimi e che gli isolani vivono vite da musical piene di strani e pittoreschi rituali. Il titolo di uno di questi film, Goona-goona, termine balinese per “magia”, divenne all’epoca un’espressione gergale newyorkese per “sessualmente provocante”» (Covarrubias).
Durante gli anni venti, Bali era un’isola tropicale che seduceva gli stranieri con la promessa di un eden popolato da languidi nativi seminudi. Si trattava però di un’immagine artatamente concepita dai colonizzatori olandesi allo scopo di offuscare la memoria ancora dolente della sanguinosa invasione militare e favorire lo sviluppo dell’industria turistica. D’altra parte, tale immagine stimolava comportamenti dissoluti che bisognava arginare perché nocivi per l’ordine sociale e politico. Preoccupati per la dignità dei colonizzati, evidentemente incapaci di riconoscere le insidie del progresso, i colonizzatori dispiegarono allora una potente arma ideologica: l’arte. A Bali però non esisteva un ambito distinto dell’esistenza chiamato «arte», ma una serie di attività praticate in modo spontaneo e abituale dalla collettività. Così la comunità degli intellettuali espatriati servì da bacino di risorse umane nel quale reclutare mediatori capaci di catechizzare gli indigeni. Così gli europei poterono propagandare l’idea di un «museo vivente», ossia di un patrimonio materiale e immateriale la cui salvaguardia esigeva che la gente balinese imparasse a essere davvero balinese.
A fine anni trenta, comunque, Bali è ormai una meta ambita per il turismo sessuale. Ma le autorità ritengono importante salvaguardare le apparenze di una società progredita che tutela i diritti dei sudditi coloniali, nonché il primato antropologico dell’uomo bianco, e perciò intraprendono una campagna moralizzatrice che si risolve in una grande epurazione omofobica. Questa è inoltre l’occasione per regolare i conti con vari personaggi invisi all’amministrazione; così,ovviamente, gli inquirenti fabbricano e manomettono prove. Spies viene arrestato con l’accusa di sesso con minorenni. Al processo, Mead intercede per lui, spiegando che i contatti di Walter con i nativi sono ispirati dal puro «rifiuto dei rapporti di dominio e sottomissione, autorità e subordinazione, che egli associa alla cultura europea». Ovviamente l’arringa non intacca la determinazione punitiva olandese ma contribuisce a mitigare la pena.
Rilasciato nel settembre 1939, Walter ritorna qualche mese a Bali dopo un breve lasso di tempo passato a Buitenzorg (Bogor), impiegato all’Orto botanico. Nel 1940, all’indomani dell’occupazione tedesca dell’Olanda, viene tuttavia nuovamente tratto in arresto e deportato dapprima a Ngawi, Giava, e poi a Kotjane nel nord di Sumatra. Dopo venti mesi d’internamento durante i quali riprende a dipingere, nell’imminenza dell’invasione giapponese delle Indie nel gennaio 1942, Walter e gli altri reclusi vengono caricati a bordo di una nave per Ceylon. L’imbarcazione, la Van Imhoff, viene bombardata da un aereo giapponese e affonda al largo della costa di Sumatra. L’equipaggio abbandona la nave senza curarsi dei prigionieri tedeschi; Spies annega.
Dopo la precoce scomparsa, il ricordo di Walter Spies è sopravvissuto grazie alla passione dell’industriale olandese Hans Rhodius, collezionista, primo entusiasta biografo (Schönheit und Reichtum des Lebens, 1964) e promotore nel 1983 a Leida di una Fondazione dedicata. Poi è stato riscoperto dagli studi post-coloniali, quando ricercatori e commentatori, evidentemente preoccupati che i balinesi non riuscissero a giudicare la loro stessa storia, hanno tacciato Spies di complicità con il colonialismo. Nel documentario Done Bali (1993), ad esempio, la giornalista Kerry Negara descrive Spies come un agente della politica colonialista, il cui altruismo nei confronti dei nativi andrebbe riconsiderato alla luce delle opportunità sessuali che il contesto gli procurava. Walter avrebbe sfruttato la propria posizione per ottenere tributi carnali dai giovani maschi balinesi. Allo stesso modo altri autori hanno criticato ogni ricostruzione propensa a identificare Spies con l’europeo di buon cuore che aiuta i nativi a prendere coscienza della loro condizione di subalterni e ad affrancarsi dallo schiavista bianco – un cliché invero frequentatissimo, da Conrad a Tarantino. Finalmente, negli ultimi anni le analisi sulla figura di Spies hanno trovato maggiore equilibrio: oltre alla recente biografia redatta da Michael Schindhelm (Walter Spies: Ein exotisches Leben, 2018), vale la pena menzionare la monografia curata da John Stowell (Walter Spies: a Life in Art, 2011) e il romanzo di Nigel Barley (Island of Demons, 2009).