Giovedì 22 ottobre il Consiglio dei ministri ha deliberato la dichiarazione dello stato di emergenza, per un periodo di 12 mesi, nei territori delle province di Biella, Cuneo, Novara, Verbano-Cusio-Ossola e Vercelli. Tutto il Piemonte, in pratica, tranne Torino, Asti e Alessandria. È una conseguenza degli eventi meteorologici estremi ed eccezionali che si sono verificati nei giorni 2 e 3 ottobre 2020, e che hanno interessato in particolare i bacini dei fiume Toce, Sesia e Tanaro. È passato quasi un mese, ma le immagini di quei giorni restituiscono la portata del disastro: il centro storico di Garessio (Cn) invaso dall’acqua del Tanaro e dal fango, la statale del Col di Tenda collassata, tra Italia e Francia, i treni fermi tra Torino e Milano per l’esondazione del Sesia.

Il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, ha chiesto immediatamente un miliardo di euro. Qualche giorno dopo ha ribadito: «Quando ho chiesto un miliardo di euro qualcuno a Roma ha sorriso, ma non si sorride di fronte ai danni che reclama il Piemonte. Il Piemonte oggi ha bisogno dello Stato e se scriviamo un miliardo è perché siamo certi dell’entità dei danni, perché facciamo le cose seriamente. Il dossier contiene interventi per 300 milioni di euro per le opere di somma urgenza, altri 300 milioni per interventi strutturali e una parte rilevante da destinare ai privati, ovvero aziende e famiglie che dobbiamo aiutare per ripartire dopo il disastro che hanno subito». Parla di opere e interventi, Cirio, e lo stesso ha fatto il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, provocando l’immediata reazione del Cirf, il Centro italiano per la riqualificazione fluviale (www.cirf.org), un’associazione tecnico-scientifica senza fini di lucro fondata nel luglio 1999 per alimentare il dibattito sulla riqualificazione degli ecosistemi fluviali e promuovere criteri di maggiore sostenibilità nella gestione dei corsi d’acqua: «Dissesto idrogeologico: le opere non ci salveranno, dobbiamo restituire spazio ai fiumi».

Andrea Goltara, direttore del Cirf, racconta all’ExtraTerrestre i motivi di questo intervento: «Costa da quando è diventato ministro punta tutto e in modo esclusivo sulla spesa in opere di difesa, e lo ha ribadito anche nell’intervento alla Camera sul dissesto, dopo gli eventi che hanno interessato Piemonte e Liguria a inizio ottobre. Nessuno nega che se c’è un’emergenza in un contesto urbano debba essere ricostruita un’opera di difesa, ma il problema è che in Italia c’è solo quello: manca un approccio più ampio e integrato, e non c’è traccia di soluzioni che puntino a restituire spazio ai fiumi nella Strategia del governo. Pensare che tutto si risolva nel costruire più opere, e più velocemente, e spendendo più soldi, è una lettura che speravamo di non dover più vedere».

Questo è vero, in particolare, in un Paese che vede il 91% dei Comuni interessato da problematicità idrogeologiche, con l’80% dei territori a rischio, come spiegano i dati dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra).

Perché, a vostro avviso, manca una Strategia?

Servirebbe una pianificazione di area vasta, mentre avverto spinte per dare i soldi ai Comuni. Ma il Comune non può valutare compiutamente gli effetti di un intervento, in particolare quel che accadrà a valle, e rischia solo di scaricare il rischio: gestire un fiume non è come manutenere una strada, devi capire che cosa ha senso fare a monte, a valle. Per proteggere una città dagli effetti devastanti delle piene, ad esempio, si può scegliere di agire localmente, costruendo un argine, oppure di guardare a monte, ripristinando aree di laminazione diffusa. Questo tipo di intervento può programmarlo un’Autorità di Bacino, adeguandosi alla normativa europea, ma nella pratica questi soggetti si stanno esautorando: sono i commissari, le Regioni, a decidere che cosa fare, e questo è preoccupante. Le Regioni spingono per le opere, in un’ottica miope, ma ci si aspetterebbe dal ministro dell’Ambiente un intervento volto a compensare questa visione, sottolineando che si deve andare in direzione diversa. L’Europa ci dà una mano: anche nell’utilizzo dei fondi del Recovery Fund ci sono dei vincoli, dato che il 37 per cento dovrà garantire tutela della biodiversità e capacità di adattamento agli effetti del cambiamento climatico. I fondi della transizione verde applicati alla gestione del dissesto non possono andare secondo il Cirf solo a costruire opere, a difendere. Serve pianificare come recuperare spazio a favore dei corsi d’acqua.

Quali sono i limiti delle grandi opere, in una fase in cui il cambiamento climatico già provoca un aumento degli eventi estremi?

Le opere vanno mantenute. Chi costruisce sa che si sta accollando costi sempre crescenti di manutenzione e di rifacimento futuro. Oggi in Italia esistono estesissimi sistemi arginali con problemi di tenuta, perché spesso non ci sono abbastanza risorse per la manutenzione. Opere fatte, rifatte e rifatte. Perché se il tuo obiettivo è solo quello di ingessare il fiume, di bloccare la dinamica del corso d’acqua, prima o poi arriva l’evento straordinario che ti crea problemi. Adesso, poi, anche gli eventi diventano più gravosi (secondo l’Arpa Piemonte, i valori registrati durante gli eventi del 2 e 3 ottobre nel verbano «rappresentano a livello di stazione più del 50% della precipitazione media annuale», mentre tutto il bacino del Po ha ricevuto in 4 giorni il 15% delle precipitazioni annuali, ndr), il sistema è sottoposto a uno stress in crescita. La risposta non possono essere opere sempre più grandi, serve fare un passo indietro. Questo problema lo vivono anche le coste, e in alcuni casi si è deciso di arretrare le opere di difesa, lasciando che il mare si riprenda territori oggi tenuti artificialmente all’asciutto con grande dispendio di energia elettrica per il funzionamento delle idrovore. Serve un ragionamento di lungo periodo: non ha senso costruire opere che costano più dei beni che devono difendere, tutto questo senza migliorare lo stato ecologico del corso d’acqua, un obbligo che abbiamo a seguito di Direttive europee come la numero 60 del 2000.

Prima ha descritto l’importanza delle aree di laminazione diffusa. La politica parla spesso di casse di espansione dei fiumi. La differenza tra i due interventi è, forse, un elemento esemplare.

Quando parliamo di cassa di espansione in generale facciamo riferimento ad un volume circondato da un argine, è un’opera di cemento che rimane vuota tutto il tempo tranne quando c’è l’evento. È un’opera idraulica. Recuperare laminazione diffusa significa invece ripristinare le condizioni per cui il fiume, in determinate condizioni, possa liberamente espandersi, nella piana inondabile nei pressi del fiume. Può prevedere lo spostamento degli argini, o magari di non farli proprio. Ripristina quello che definiamo effetto diffuso di trattenimento. In certi casi può essere efficace anche evitare di tagliare gli alberi: i boschi ripari, rallentando le acque, possono smorzare i picchi di piena e questo riguarda non solo l’asta principale del fiume, ma in particolare tutto il reticolo minore. Dovrebbero essere promossi anche interventi di agricoltura conservativa, per il ripristino del carbonio organico del suolo e per far sì che il suolo faccia da spugna.