Calarsi nelle fratture della coscienza collettiva, e da qui muovere alla ricerca delle tracce di dolore è il programma che W.G. Sebald ha riconosciuto come cifra narrativa e registica di uno dei più intensi autori e cineasti del Novecento tedesco, Alexander Kluge.
Proprio questo doppio motivo è condensato nelle pagine di L’incursione aerea su Halberstadt dell’8 aprile 1945, apparso nel 1977 (con successiva traduzione italiana nel libro del 1982 Nuove Storie. Spaesato nel tempo, che comprendeva anche altre prove narrative) e ora riproposto da Meltemi (pp. 138, euro 14, 00) che riprende l’edizione del 2008, nella nuova e bella traduzione di Anna Ruchat (insieme ad alcune studentesse della Scuola civica di Milano), opportunamente corredata in appendice da uno scritto di Sebald del 1982, dedicato a Kasack, Nossack e Kluge.

L’occasione storica cui si ispira Alexander Kluge è il bombardamento aereo che distrusse, quando aveva undici anni, la città di Halberstadt (suo luogo d’origine). A colpire l’attenzione di Kluge non è tanto la distruzione del centro abitato (con il dolore che ne consegue), quanto la successiva costruzione di un labirinto di silenzio sui terreni ricoperti di macerie e su interi tratti di vie cancellati da quel mondo di rovine.
Di qui la scelta di serbare memoria di questo evento attraverso un «foto-testo» che è anche una significativa testimonianza della sua estetica pseudo-documentaria (collegata a doppio filo con quella di Sebald). Al centro della poetica narrativa e visuale di Kluge è infatti non tanto la volontà di riprodurre la realtà come essa è, (così farebbero le immagini documentarie), quanto quella di produrre il vissuto esperienziale ed emozionale dei suoi personaggi, in tutte le sue più intime contraddizioni.

Per questa ragione lo sguardo di Kluge indugia, nelle «miniature della fine» che compongono questo volume, su alcuni dettagli apparentemente poco significativi, con precisione e distacco (basta leggere i titoli per rendersene conto), in costante bilico tra realtà e immaginazione, al confine tra letteratura, storia e cinema. Come accade per le sue riprese cinematografiche, anche qui la presa narrativa, ben lungi dal rifarsi a un orientamento tradizionale, segue un andamento irregolare, «perturbante», muovendo avanti e indietro nelle storie, tra il testo e l’immagine.

Il meccanismo narrativo è quello del montaggio cinematografico, fondato sull’elemento straniante dello choc (in questo Kluge ha fatto propria la lezione di Benjamin), sulle interruzioni del filo del discorso, sugli «spazi vuoti con scintille».

E infatti i testi di Kluge (come del resto i suoi film) sono costellati di tagli e salti, di interruzioni e aperture, e intervallati da alcuni tasselli fotografici, o da intarsi di mappe, di testi estrapolati da altri contesti e di schede tecniche. La disconnessione programmatica (a volte spiazzante, in alcuni casi persino sgradevole) del testo assume così una doppia funzione. Se da un lato mira a ricalcare il procedimento della storia, tutt’altro che omogeneo e rettilineo, dall’altro sollecita la partecipazione attiva del lettore. È come un monito dalla provenienza incerta, a ricordarci che a ben vedere quella storia quotidiana altra, raccontata, incastonata in una cornice letteraria e spesso affiancata da immagini fotografiche, ci riguarda. E non possiamo dimenticarcene.