La beffa di una morte tragicomica è un timore che attraversa la mente di tutti, almeno una volta nella vita: immaginando la propria fine ci si trova a pensare che se davvero morissimo colpiti dalla proverbiale tegola in testa, la nostra dipartita si tingerebbe inesorabilmente di ridicolo.

Così, l’unica consolazione, quella di credere che la nostra scomparsa sia un evento tragico che fa disperare noi, ma soprattutto quelli che lasciamo, verrebbe intaccata dal modo decisamente inglorioso in cui ce ne saremmo andati.

NEL SUO ROMANZO d’esordio Un’imprecisa cosa felice (Hacca edizioni, pp. 192, euro 14), Silvia Greco si concentra proprio sulla tragicommedia che connota la vita di tutti, ma di alcuni in particolare. Lo fa a partire da una serie di esempi di morti ridicole che gelano il sangue per la loro inverosimiglianza: è strano, infatti, pensare a come l’improbabile si accosti alla morte che, invece, come ci ricorda Goliarda Sapienza, è l’unica cosa davvero sicura: «la Certa».

IL LIBRO RACCONTA soprattutto come facciano, coloro che rimangono, a sopravvivere alla sparizione assurda dei propri cari: ciò che conta davvero non è il modo di andare via, ma l’assenza che resta. Marta e Nino, protagonisti di due storie che nel testo sono come ruscelli che sgorgano da sorgenti distinte e che verso la fine del libro si uniscono, alla morte ridicola di due donne fondamentali della loro esistenza reagiscono in modo molto diverso.

La ragazza si dispera per mesi per la perdita della zia adorata, figura materna d’elezione, mentre Nino per la sua vera mamma, morta improvvisamente, non versa una lacrima. Entrambi, però, si mostrano assetati di meraviglia, come se la capacità grandiosa della vita di essere incongruente, anche nel suo modo di finire, avesse lasciato nei due giovani, di età indefinita, una fiducia irrazionale che se è possibile morire così, chissà in quale modo stupefacente si può continuare a vivere.

CIÒ CHE COLPISCE infatti in questa prima prova letteraria di Silvia Greco è la totale assenza di paura: Marta si diploma senza voglia e si iscrive all’università con il solo desiderio di fuggire dal paesino di provincia in cui è nata e ha sempre vissuto con sua madre. Sarà costretta a tornare a casa, dopo avere dissipato giorni e denaro fra feste, droghe e grosse bevute e ad andare a lavorare nel negozio di fiori del cimitero. Nino non finisce la scuola e sul suo posto di lavoro riceve quotidianamente insulti dal suo capo.
Eppure, in loro è assente ogni cenno di frustrazione, non c’è rivendicazione, né tempo da dedicare al senso di ingiustizia o a quello di fallimento. La nota principale della narrazione è piuttosto la semplicità, ma non nel senso di faciloneria.

IL TRATTO FIABESCO pare essere il risultato di un procedimento chimico complesso tra gli elementi più duri dell’esistenza: la perdita, l’assurdo, la solitudine. Silvia Greco sembra averli fatti reagire insieme per anni per trarne, poi, dal suo alambicco di scrittrice, un’essenza agrodolce che sa di vero.