Le elezioni sono passate, i nuovi sindaci sono al lavoro da lunedì e quasi tutti i nuovi parlamenti regionali si sono riuniti e stanno ultimando le procedure per l’elezione dei nuovi presidenti. Ma la frenesia politica dei momenti di grande trasformazione non si è placata. Anzi.

Il partito popolare è in attesa convulsa dei “grandi cambiamenti” che un riluttante Mariano Rajoy è stato costretto a promettere dopo la batosta elettorale. Oggi dovrebbe essere il gran giorno, e il totoministri è scatenato – nessuno infatti pensa che il cambiamento vada molto più in là di qualche avvicendamento e di qualche conferenza stampa in più. Il partito socialista ha disattivato la bomba primarie: Pedro Sánchez è l’unico candidato che abbia ricevuto il numero minimo di firme per potersi presentare (ne servivano 9700, ne ha ottenute 27mila) e la presidente andalusa Susana Díaz è impegnata a formare il suo nuovo governo e per il momento non ha fatto manovre per scippargli la segreteria. Le cose nel partito si sono tranquillizzate: Sánchez è riuscito a piazzare vari presidenti autonomici socialisti grazie a alleanze con Podemos – mantenendo la promessa di non scendere a patti col Pp, cosa che prima delle elezioni non era affatto scontata.

D’altra parte in Izquierda Unida e Podemos il dibattito ferve. Izquierda Unida, indebolita dai risultati elettorali – ma solo se non si prendono in considerazione le vittorie delle piattaforme in cui si è integrata – vede lo scontro fra Alberto Garzón, che spinge per confluire nuovamente con altre forze di sinistra per un fronte anti Pp alle politiche, e chi non vuole rinunciare alla sigla. Intanto il consiglio federale di lunedì ha preso una decisione con pochissimi precedenti: ha espulso la federazione madrilena, colpevole di non aver seguito le indicazioni di IU federale né sulla confluenza elettorale nella piattaforma Ahora Madrid di Manuela Carmena (i due candidati eletti nelle primarie per il comune e per la comunità sono stati costretti ad andarsene perché IU Madrid non li appoggiava) e neppure rispetto all’espulsione dei responsabili politici che erano stati coinvolti nello scandalo di Caja Madrid, la banca pubblica portata alla rovina, trasformata in Bankia e che lo stato ha dovuto riscattare a caro prezzo: più di 22 miliardi. Izquierda Unida Madrid aveva mandato suoi rappresentanti in consiglio di amministrazione (espulsi da Izquierda Unida federale già anni fa, appena venne alla luce lo scandalo) ma nessuno ne aveva voluto rispondere politicamente.

Podemos invece fa il pesce in barile sul tema confluenza. Pablo Iglesias si dichiara favorevole quelle a livello regionale (i prossimi appuntamenti elettorali sono in settembre le elezioni catalane, e poi Galizia e Paesi Baschi), ma non ne vuole sapere a livello nazionale. I giochi sono ancora aperti: Iglesias conta davvero di essere il prossimo presidente del governo ed è chiaro che la stessa legge elettorale potrebbe aiutarlo a raggiungere l’obiettivo se Podemos, IU e molti altri partiti rosso-verdi si mettessero d’accordo su una piattaforma comune (rinunciando al nome “Podemos”).

Infine, scosse sismiche potenti anche in Catalogna, dove i partiti si preparano alle elezioni anticipate, anche se il president Artur Mas non ha ancora sciolto il Parlament come aveva promesso agli altri partiti nazionalisti che più o meno direttamente lo appoggiano in funzione del suo progetto indipendentista. La scossa più forte è quella di Unió, il socio minore della coalizione Convèrgencia i Unió (che guida Mas) che ieri ha lasciato il governo.

Domenica i suoi 4000 militanti hanno votato (per un soffio) a favore della posizione più tradizionale del partito: indipendenza, forse, ma con mille paletti. Lunedì l’ultimatum di Convèrgencia: o con noi sull’indipendenza, o ci separiamo (per la prima volta dal ritorno della democrazia). Allo stesso tempo, la Cup, movimentisti indipendentisti di estrema sinistra, ha dichiarato di non essere interessata a una confluenza con Podemos e altri perché il loro punto di riferimento è l’indipendenza. Rafforzando Mas e la sua idea di trasformare le elezioni in quel “plebiscito” sull’indipendenza che il governo di Madrid gli ha impedito di celebrare.