Adesso racconto soprattutto storie dal vero, basta finzione: viaggio. Vado e torno. Vado e torno». Questa frase arriva a pagina 21, a poche pagine dall’inizio di La metà del cielo, il libro di Angelo Ferracuti appena pubblicato da Mondadori (pp. 216, euro 18), e suona come una dichiarazione di intenti e insieme una resa. Non scriverò più finzione – dice in una maniera che non ammette repliche – ho collezionato fallimenti a sufficienza, sventolo la bandiera bianca dell’immaginazione.
E insieme però quella frase è il consuntivo di una carriera iniziata da narratore (tra gli altri, Norvegia e Attenti al cane) e poi appunto traslocata nel reportage, ancorché letterario. Il risultato di quella «resa» è di aver innervato il genere documentario con il sangue più denso e potente della letteratura. Il costo della vita, Spaesati, Andare, camminare, lavorare sono solo alcuni dei libri che hanno fatto di Ferracuti uno degli occhi più imprescindibili per capire il nostro paese e il nostro tempo.
Ora, il punto è che quella dichiarazione («basta finzione: viaggio») compare in apertura di un volume su cui campeggia, sotto il titolo, la scritta Romanzo. Il protagonista, che risponde allo stesso nome dell’autore la inserisce a conclusione del terzo capitolo. Poco sopra aveva scritto: «Se penso a quanti fallimenti ho collezionato negli anni con la scrittura. (…) Sono stato uno sciocco, penso certe volte, non è servito a niente, neanche quello risolve: un romanzo ben scritto, un racconto che fila».
Di cosa parla, dunque, questo romanzo di Angelo Ferracuti, e come mai la sua onda d’urto sul lettore è così forte, così potente l’effetto lungo tutto l’arco della lettura e così duraturo il suo persistere una volta chiuso il libro?

STANDO AI NUDI FATTI, La metà del cielo è il racconto di un amore, di una morte e di un’elaborazione del lutto. O per essere ancora più precisi: di un’educazione all’amore, alla morte e all’elaborazione del lutto. La morte di Patrizia, moglie di Angelo, apre il romanzo con l’asciuttezza di un incipit di Camus o di Fenoglio: «Quando Patrizia aveva smesso di respirare, passeggiavo nella piazza principale della mia piccola città. Era cupa e deserta».
Il racconto si dipana poi in un andirivieni tra il prima e il dopo: un dondolio sempre teso, non di rado struggente, tra il tempo in cui due ventenni si incontrano tra Milano e le Marche in uno strascico di anni Settanta, e la solitudine della vedovanza, prima, e poi la vita che riprende con un nuovo amore. Tra la spensieratezza dei vent’anni, e l’ernia feroce di un pensiero che perfora ogni attimo di chi resta e cerca invano – nello spazio, negli oggetti, nel silenzio – chi non c’è più.

IN MEZZO, L’ETÀ ADULTA, la nascita delle due figlie Eugenia e Lorenza, le crisi di coppia, i tradimenti, il diventare grandi di tutti di colpo al cospetto di una malattia che, per quanto tenuta in disparte per protezione, finisce per invadere ogni metro quadrato di vita. E quella malattia, il tumore, che si prende tutto e chiede ad Angelo di esserci per Patrizia, per poi lasciarlo spiaggiato, ridotto a poca cosa, a trincerarsi nella sua parte di letto, a chiedere all’alcol di salvarlo, sapendo che però è solo una scialuppa bucata.
Alle spalle, sullo sfondo, quell’altro cancro epocale, antropologico, di una provincia che si alimenta di maldicenza e piccineria, che precipita insieme a tutto il resto: «Negli ultimi anni ero partito sempre. La piccola città mi sembrava ogni giorno più angusta, anche la provincia appartata e discreta di una volta era peggiorata, quella della favoleggiata misura umana, era diventata più competitiva e cattiva. Si erano fatti tutti borghesi, anche gli artigiani, gli operai, gli sguatteri, i facchini, le donne delle pulizie, i carpentieri, l’odio di classe aveva lasciato il posto all’invidia sociale».
Cos’ha dunque di tanto speciale, questo libro? Che lungi dall’abiurare il proprio proposito (al bando la finzione, bisogna mettersi in viaggio e raccontare), Angelo Ferracuti torna al romanzo ma con gli strumenti del reporter. Esattamente il movimento inverso, cioè, che l’aveva portato a trasferirsi al racconto dal vero, al documentario letterario, dopo anni di narrazione pura. Ferracuti si mette in viaggio nella propria vita, l’attraversa, ne guada il dolore più estremo, si spinge fino alla soglia ultima come fosse una terra da scoprire, un territorio da interrogare, una geografia da restituire al lettore.

I PIGRI O I DISTRATTI parleranno di autofiction, e persino dire memoir è in fin dei conti inesatto. Perché in questo libro non c’è nessuna concessione al racconto, pur essendo, nei fatti, un racconto ad altissima temperatura emotiva.
La metà del cielo è, di fatto, un reportage sulla propria vita. È unico per questa ragione. Ferracuti conduce un’inchiesta vera e propria, si mette alla ricerca dei documenti, delle testimonianze di chi c’era e per questo può aiutarlo a riportare ciò che è vero sul foglio. Patrizia, prima di tutti ma anche se stesso, sono i luoghi da cui torna per raccontare: «Provo tenerezza, per quell’uomo, ma sono contento di non essere più lui». Chi si mette in viaggio per raccontare sa di correre un rischio, perché non tutto dipende da lui: la realtà è un animale vorace, si prende chi vuole, non fa concessione se non a ciò che è essenziale. Chi vuole stare all’asciutto, evita di mettersi in mare.
Per questo La metà del cielo è un libro – un romanzo?, che importa – incandescente e commoventissimo. È necessario, come è necessaria la terra su cui camminiamo. «Basta finzione: viaggio. Vado e torno. Vado e torno», scrive Angelo alla fine del terzo capitolo. E mantiene la promessa: il suo viaggio è quello più radicale, è la destinazione più estrema, quella che un vivo conduce nel regno dei morti. Ed è lì allora questo reportage sulla propria vita che Angelo Ferracuti scrive e diventa letteratura, si fa canto. È il canto di Orfeo che, lasciata Euridice, torna tra i vivi e si fa reporter raccontando quello che ha visto, facendo della tenebra luce.