«Il cinema è una macchina perfetta disegnata per i nostri sensi. Sedersi in un cinema per circa due ore significa perdere contatto con il proprio peso corporeo ed è molto importante per me considerare questa ’perdita’ dello spettatore». Di questa (e altre) dilatazioni sensoriali si nutre il cinema di Johann Lurf, giovane austriaco orbitato qualche giorno fa nella galassia Fuori Formato (curata da Tommaso Isabella) del festival milanese Filmmaker che lo ha visto ospite e co-curatore di un programma speciale dedicato all’avanguardia del suo paese. Nove cortometraggi votati, con inquietante precisione, alla sovversione creativa dello spazio e della percezione, nove semplici luoghi (dalle rotatorie stradali di A to A, a una piramide di vetro a Vienna fino alle strade buie di 12 Explosions) che il montaggio dei punti di vista si diverte ad arruffare. Nove riflessioni sulle infinite possibilità combinatorie della macchina della visione dove mistero e scetticismo, sulla rappresentazione del reale, sembrano convertire alla meditazione lo sguardo della macchina da presa.

 
Osservatore funzionale e sensuale, Lurf utilizza tutto l’equipaggiamento della produzione filmica per una personale filosofia dell’astrazione di ambienti e architetture, e per ricordarci (con ossessivi, falsi movimenti) l’eterno statuto di vulnerabilità dell’immagine.

 
Fra le righe della tua biografia, ma soprattutto delle tue immagini «spaziali» si manifesta la figura di Harun Farocki.
Ho studiato a Vienna, all’Accademia di Belle Arti, perché volevo dedicarmi alla pittura, ma due anni dopo Farocki è arrivato alla scuola; ho cominciato a frequentare i suoi corsi abbandonando ogni velleità pittorica. I seminari di Farocki si svolgevano per una settimana intera ogni mese: il primo giorno mostrava un film e nei giorni successivi lo discutevamo scena per scena. Era un metodo molto partecipativo, ognuno di noi poteva intervenire, riflettere a voce alta, fermare la discussione.

 
Che cosa ti ha colpito di Farocki da spingerti a abbandonare la pittura?
Quando è arrivato ho smesso immediatamente di dipingere. Tutto per lui era fondamentale: dalla concezione dell’immagine al montaggio. Ho imparato che un film può essere meglio interpretato se rivisto tante volte, che si possono estrarre moltissime informazioni guardandolo da vicino, anche fisicamente, con gli occhi letteralmente incollati allo schermo. La discussione in classe insieme agli altri studenti mi ha fatto capire quante diverse e svariate letture ci possono essere della stessa cosa. Ed è stata questa molteplicità di prospettive, unita all’interesse che ho sempre avuto per gli studi di architettura, che ha reso ancora più incisivo il mio passaggio al cinema.

 

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Nel programma a te dedicato, si nota una costante alternanza di tecniche e formati: pellicola, video, 3D, found footage. Come ti approcci al singolo mezzo?
Ho cominciato con il video per approdare al 16 millimetri e alle prime sperimentazioni con il 3D. Non percepisco troppa differenza tra un formato e l’altro anche perché ogni film, al momento del concepimento, ha già nella sua natura una specifica impronta. Preferisco però girare in pellicola anche se talvolta, come in 12 Explosions, dove avevo bisogno della velocità, il video si rivela il formato perfetto. A to A invece, anche per la sua particolare natura in 3D, necessitava del 16 millimetri mentre con Endavour ho lavorato per la prima volta sul found footage.

 
A proposito di «Endavour», ma anche del tuo ultimo lavoro «Capital City» girato a Cuba, il lavoro sul suono è molto complesso: utilizzi i rumori di scena come note musicali di una sinfonia cadenzata e «composta» dai raccordi di montaggio che amplificano il ritmo interno.
Sono film pensati per una risonanza particolarmente potente. Per Endavour ho lavorato circa un anno, all’inizio avevo un’idea molto scarna, avevo raccolto questi materiali della Nasa senza sapere bene che farne. Poi ho iniziato a sperimentare su diversi ritmi sonori e di montaggio. Alla fine ho trovato la giusta andatura capace di creare quell’effetto sonoro insieme a un punto di vista multi-prospettico.

 
Oltre ai tuoi lavori, hai curato insieme a Tommaso Isabella, una selezione che racchiude gli ultimi due decenni dell’avanguardia sperimentale austriaca.
Non volevo dare una prospettiva storica ma parlare della contemporaneità del cinema sperimentale degli ultimi dieci anni. Abbiamo anche scelto alcune sigle girate appositamente per dei festival. Sono lavori che solitamente hanno vita breve e vengono presto dimenticati ma alcuni, a mio avviso, sono davvero significativi. In Austria non esiste una vera e propria scuola ma un movimento di relazioni che includono posizioni individuali, dalla focalizzazione sulle strutture architettoniche allo studio della pellicola fino a un interesse particolare per il found footage che, userò per il mio prossimo lavoro, il mio primo lungometraggio.

 

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Puoi anticipare qualcosa?
Sarà una collezione di cieli stellati della storia del cinema. Sono immagini quasi sempre false, tranne i cieli che vengono filmati oggi. Non sono immagini reali ma interpretazioni della nostra visione che si diversificano nei diversi momenti della Storia. Li sto selezionando con cura e non so ancora quando riuscirò a terminare questa mia raccolta di visioni.