Si fa presto a dirsi sovranisti anche con i vaccini. Poi però bisogna fare i conti con i giganti della farmaceutica, con brevetti e licenze, con il mercato, con le industrie italiane e le loro caratteristiche e limiti. Senza dimenticare le regole europee che impongono la suddivisione di ogni produzione rispetto alla popolazione di ogni stato membro: e a noi spetta solo il 13,6%. E allora si capisce in fretta che continuare con lo slogan «Produciamoci i vaccini da noi» non ha molto senso.
Sotto la pressione di Matteo Salvini oggi Giancarlo Giorgetti ascolterà il presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi. Lo stesso che da settimane spiega un po’ ovunque che riconvertire una fabbrica farmaceutica per produrre vaccini altrui non è uno scherzo: servono almeno sei mesi. Lo fa perché rappresenta gli interessi di grandi aziende – come Menarini ad esempio – che di vaccini non si occupano e perché nessuno dei giganti come Pfizer si è mai detta disponibile a cedere in licenza la produzione del suo ambitissimo vaccino.
Insomma, in pratica la «sovranità vaccinale» si declinerebbe in maniera molto diversa. Si concretizzerebbe nel fornire in Italia catene di subappalto a colossi del big pharma mentre invece che affrontare il problema a livello realmente globale concedendo le licenze obbligatorie – in pratica l’esprorio forzoso dei brevetti – chiesto ad alta voce da tante Ong e in parte dall’Oms anche per permettere ai paesi più poveri di poter avere vaccini, che oggi si sognano, allontanando l’immunità di gregge globale e il rischio di nuove varianti e nuove pandemie.
L’Italia è infatti una potenza nell’industria farmaceutica – seconda in Europa – ma non nella produzione di vaccini. «Si tratta di una produzione estremamente particolare – spiega Aldo Zago della Filctem Cgil – in Italia sostanzialmente abbiamo due sole aziende che possono produrre vaccini da Rna da subito: la Gsk di Siena, dove fra ricerca e produzione lavorano circa 2 mila persone, e la Sanofi di Anagni (Frosinone) che già la scorsa estate ha aggiornato la sua linea vaccini, dove lavorano alcuni centinaia di lavoratori».
Ma nel caso di Gsk – a cui si appoggia Rino Rappuoli che sta preparando i monoclonali per la cura del Covid – non ha la tecnologia per produrre vaccini a Rna, quelli Pfizer e Moderna.
Tutt’altro discorso riguarda l’infialamento: si tratta del mero riempimento delle fiale che già avviene alla Catalent di Anagni per il vaccino Astrazeneca.
Nel caso invece del vaccino italiano Reithera a Pomezia (vicino Roma) – in cui è entrato nel capitale Invitalia di Arcuri – la produzione è al momento lontana e non sarebbe certo su base ampia, con molti interrogativi sulle sue dimensioni su scala industriale. E Invitalia di certo nella partita «catena del subappalto» non rientrerebbe per compiti e interesse.
L’unica strada percorribile dunque è quella di utilizzare la Sanofi di Anagni all’interno dell’accordo che il gigante francese ha siglato con Pfizer per gli stabilimenti francesi.
«Noi come Italia scontiamo i problemi europei – prosegue Zago della Filctem Cgil – la strategia è stata quella di non legarsi ad un solo produttore facendo più contratti. Ma è pur vero che il massimo produttore europeo è comunque la francese Sanofi che purtroppo è in ritardo col suo vaccino di 6 mesi rispetto ai tempi previsti: doveva entrare in produzione ora e invece lo farà in autunno. Mentre l’Inghilterra ha scelto di puntare sulle aziende che avevano produzioni lì da loro. Al momento sembra la strategia vincente ma io aspetterei qualche mese perché le cose potrebbero invertirsi», conclude Zago.
In questo quadro Sanofi è stata costretta ad un «accordo capestro» con Pfizer pur di utilizzare le proprie fabbriche. Ma non è detto che sia interessata ad allargarla alla piccola linea di Anagni. A meno di incentivi pubblici da parte del governo italiano. Sarà questo il vero argomento dell’incontro GIorgetti-Scaccabarozzi (Farmindustria) di oggi.