Lo scrisse Alvaro Siza già ai suoi esordi che Eduardo Souto de Moura (Porto 1952) sarebbe diventato un architetto influente. Suo giovane collaboratore, Siza ne aveva valutate le qualità nel progetto per São Victor del programma di edilizia popolare SAAL, Serviço de Apoio Ambulatório Local, avviato dopo la Rivoluzione dei Garofani, 1974.
Nei primi anni ottanta, Souto de Moura intraprese un percorso autonomo, su consiglio proprio di Siza, e più tardi si ritrovò con il suo studio nello stesso edificio di Rua do Aleixo 53 dov’era stato con Siza e dove c’era anche l’atelier di Fernando Távora, maestro di entrambi. Il dialogo con Siza restò costante, ma solo dopo anni si ritrovarono ancora insieme, con il progetto della stazione Municipio (metropolitana di Napoli), inaugurata nel 2015.
Dopo diversi premi, fra cui un Pritzker nel 2011, si confermava l’«incomunicante eccesso di talento» di Souta de Moura, che Siza già aveva intuito nelle sue prime opere: la Casa das Artes a Porto e il Mercato Municipale a Braga. Sono volumi bassi e sviluppati in senso longitudinale, incuneati senza clamore nella città come semplici quinte murate.
Proprio di qui inizia il catalogo dell’esposizione Souto de Moura Memória, Projectos, Obras (Casa da Arquitectura-Electa, pp. 512, euro 50,00), in corso (fino al 6 settembre) alla Casa da Arquitectura – Centro Português de Arquitectura di Motosinhos, vicino Porto . Il volume, curato (come la mostra) da Francesco Dal Co e Nuno Graça Moura, contiene i contributi di coloro che con più costanza hanno seguito l’opera dell’architetto portoghese. Giovanni Leoni, con la monografia del 2012, scritta insieme ad Antonio Esposito, ordinò un corpus di progetti già sostanzioso (ricordiamo, degli anni novanta, le cronache dal Portogallo alla scoperta di Souto, firmate da Antonio Angelillo per la «Casabella» gregottiana). A seguire, Carlos Machado e Jorge Figueira ne illustrano, il primo, attraverso una ricostruzione genealogica, l’«elementarismo» formale; il secondo l’«incontro del dispositivo miesiano con il neorazionalismo italiano», che ha dato luogo, in Souto, a una nuova versione della modernità lusitana dopo l’esperienza anni cinquanta di Távora e quella anni settanta di Siza.
Questa concentrazione di talenti fu definita Escola do Porto, «caratterizzata – disse Siza – dalla correttezza e dall’uniformità». Con low profile, Souoto de Moura afferma che si trattò semplicemente di una congiuntura storica, per cui un gruppo di architetti si trovò a dover costruire mezzo milione di case dopo quarantotto anni di fascismo. Quanto poi al linguaggio dell’architettura, siccome «il salazarismo era stato una specie di Postmodernismo precoce», né Rossi, Venturi o Lyotard, né i «frontoni di cartapesta» della Strada Novissima della Biennale 1980, potevano soddisfare, e si comprende, quindi, quanto il miesiano «“less is more” era realmente una ventata di aria fresca». Con la rinascita democratica, insomma, era quasi impossibile accettare il «“post” senza essere mai stati autenticamente moderni», e in ciò consistette la differenza.
Dal desiderio di scoprire una modernidade portuguesa, la ricerca di Souto de Moura detterà alcune semplici regole: «omettere è più importante che proporre, limare e rasare più importante che disegnare, la semplicità più importante del comporre». Il risultato fu una serie di architetture in bilico tra «dubbi» e «certezze», in altre parole «oscillanti», secondo la definizione di Figueira, alla ricerca di una verità che per Souto si cela nella costruzione (téchne) alla prova degli stratagemmi artificiali dell’arte (poiesis).
Con Souoto de Moura i «temi» sono indifferenti, anche se ha prestato una forte attenzione alla residenza privata, in particolare negli anni novanta, dopo essersi impossessato della scomposizione neoplastica (Mies van der Rohe, ma anche Theo van Doesburg e Pieter Oud) e aver scoperto la minimal art (Donald Judd). Parliamo delle sue case a patio (Casa ad Alcanena e a Motosinhos), in un unico volume lineare (Casa 1 a Miramar) o in più volumi (Casa a Tavira), incamerate tra terrazzamenti in pietra (Casa a Moledo) o persino inclinate per gioco su una pendenza (Casa a Ponte de Lima).
Tuttavia, è negli «esercizi estremi» che seguiranno nel decennio successivo che Souto de Moura sonda l’aspetto oggettuale dell’architettura, dagli edifici multipiano (Edificio per uffici Burgo a Porto) alle infrastrutture civili (Stadio Municipale di Braga), fin là dove i programmi sono più vincolanti per ragioni di tecnologia ingegneristica (Centrale idroelettrica della diga di Foz Tua; Stazioni della Metropolitana di Porto) o di conservazione storico-artistica (Riconversione del Convento das Bernardas; Pousada del Convento di Santa Maria do Bouro).
Pertanto, se si segue il tracciato dell’architettura ridotta a object-type, assimilabile agli oggetti che «si allineano nelle “nature morte” di Giorgio Morandi» (Figueira), si dovrà intendere l’opera dell’architetto portoghese catapultata in un altro ordine che non è certo quello della tradizione del Moderno dalla quale trae ispirazione. Per comprendere quest’ordine può soccorrerci il Baudrillard del «sistema degli oggetti».
Fu, infatti, il filosofo francese a chiarire che, così come nell’ambiente domestico, nella realtà urbana il solo valore dominante è «l’informazione, il controllo, l’invenzione, la disponibilità continua a messaggi oggettivi». L’architettura di Souto, necessariamente astratta e disponibile a molteplici possibilità combinatorie, partecipa agevolmente della società della tecnica, strutturata per pretendere chiarezza nelle forme dell’assolutezza, e richiedente efficienza, nelle sembianze della funzionalità.
È possibile ritrovare nell’atteggiamento di Souto de Moura – ultimo dei moderni? – un fastidio verso l’«illusione estetica» tanto discussa da Adorno? Che il fastidio verso la soggettività sia qualcosa che riguardi anche l’architetto di Porto e che spieghi quella sua passione, oltre che per il disegno, per la tecnica edilizia e il calcolo oggettivante? Una prima risposta la dà Rafael Moneo in apertura del libro-catalogo, ricordando che il suo amico Eduardo gli disse: «quando la costruzione procede bene, non siamo noi a dirigerla, è lei a suggerirci cosa fare».