Chaïm Soutine, “Le Petit Patissier”, 1922-’24, Parigi, musée de l’Orangerie

 

Sono sempre stato pazzo di Soutine, di tutti i suoi dipinti. Rappresenta la lussuria del dipingere. Costruisce una superficie che sembra un tessuto, una materia. C’è una sorta di trasfigurazione, un certo impasto di carne nella sua opera». Con queste parole il settantatreenne Willem de Kooning ritorna ammirato su uno dei suoi pittori preferiti, che forse più di tutti ha influenzato il proprio essere artista. Elaine de Kooning, nel ricordare le parole del marito – «più cerco di essere come Soutine, più sono originale» –, enfatizza e rafforza il doppio legame intrattenuto sia con l’opera sia col ruolo da questi interpretato nel suo milieu artistico.
Ciò che de Kooning vi ammira, e che cerca di ripensare nel proprio lavoro, è la qualità delle superfici, il gesto che trasfigura la pittura in materia viva. Si considerino le carcasse di bovino e i pollami spennati di Soutine, con il furore delle pennellate, e la ricchezza della tavolozza che dai rossi vivi agli arancioni sgargianti ai blu sembrano prefigurare le Women. E in fondo anche il loro stare nel mondo dell’arte si somiglia, in quanto figure inquadrate storicamente in una specifica cerchia di artisti nella quale si muovono come personalità eccentriche: l’uno, nella Scuola di Parigi; l’altro, in quella di New York.
Oggi è possibile vedere un importante corpo a corpo tra le opere dei due alla mostra curata da Claire Bernardi et Simonetta Fraquelli a l’Orangerie: Chaïm Soutine / Willem de Kooning, la peinture incarnée (fino al 10 gennaio 2022; catalogo Hazan / Musée d’Orsay, pp. 232, euro 40,00). In essa l’accostamento dell’opera di Soutine (1893-1943) a quella di de Kooning (1904-1997) non vuole soltanto mettere in luce lo sguardo ammirativo di quest’ultimo verso il primo. È, più proficuamente, lo studio di un’interrogazione creativa. Un confronto che illumina concretamente la genesi critica delle opere di de Kooning, andando a sondare, retrospettivamente, il processo creativo in Soutine. Come sostengono le due curatrici, «de Kooning è forse l’unico artista della sua generazione a cogliere appieno il significato della pittura espressiva di Soutine, l’unico a percepirlo così chiaramente da trovare il proprio punto di equilibrio in un uso libero e disinvolto del gesto pittorico, paradossalmente inseparabile da un forte e intimo attaccamento alla figura. Questa ricerca della struttura, unita a un legame appassionato con la storia dell’arte, lo affascina tanto quanto la sua spiccata attrazione per l’informe. Sembra che abbia ammirato e cercato in Soutine questa alchimia che gli permette di varcare il confine eccessivamente rigido che separa l’astrazione dalla figurazione. Invocando Soutine, il pittore americano difende un approccio che potrebbe essere definito “espressionismo gestuale”, termine che indubbiamente può essere applicato alla sua stessa pittura, sebbene si spinga ancora oltre nella deformazione».
L’opera di Soutine ha ricevuto un’accoglienza internazionale particolarmente precoce. Cresciuto in uno shtetl nella regione di Minsk, e arrivato da Vilnius a Parigi nel 1913, il giovane pittore trova il suo primo grande collezionista americano già nel 1922, nella persona di Albert C. Barnes. Viene così scoperto quasi contemporaneamente a Parigi e a Filadelfia. Ma è nel dopoguerra che la sua pittura trova pieno riconoscimento, a seguito della retrospettiva presentata nell’autunno del 1950 al MoMA di New York, mostra che suscita reazioni infuocate nella cerchia di critici e artisti in cui opera de Kooning. Il curatore, Monroe Wheeler, commentando i paesaggi tormentati prodotti da Soutine durante un soggiorno intorno al 1920 nel villaggio pirenaico di Céret (che, ricordiamolo, fu luogo topico del cubismo di Picasso e Braque), pone poi questa domanda retorica: «Soutine era in quel momento ciò che si potrebbe definire un espressionista astratto?».
A quest’epoca, un paesaggio dipinto a Céret di Soutine e una Woman di de Kooning hanno già avuto modo di essere messe a confronto nella mostra Challenge and Defy, che termina poco prima dell’inaugurazione della suddetta retrospettiva al MoMA, e che ha luogo nella newyorkese Sidney Janis Gallery, roccaforte dell’arte americana del dopoguerra.
Proprio in quel periodo, in una conferenza allo Studio 35, de Kooning dichiara che «la carne è la ragione per la quale la pittura a olio è stata inventata». Questa affermazione, detta da un esponente dell’astrattismo newyorkese, appare una provocazione. In realtà essa risulta immediatamente intellegibile se pensiamo che è il momento in cui l’artista recupera la figura, in particolare il corpo femminile. In fondo la cosa che affascina maggiormente de Kooning è la capacità di Soutine di trasformare la materia pittorica in materia organica. Ricordiamo che per entrambi Arthur Danto parla di «corpo vissuto». Dipingendo la figura, l’artista incarna delle sensazioni. La figura gli è necessaria nella misura in cui riesce a liberarne e infondervi energie vitali. Il colore circola sulla tela come il sangue nelle vene. Entrambi i pittori lo usano per manifestare la vita della figura, e anche se sembrano andare oltre e contro di essa, in realtà non la distruggono mai. Del resto è sempre Danto ad affermare che ciò «che de Kooning avrebbe visto in Soutine è che era possibile dipingere come un artista newyorkese – con un tocco molto gestuale e un impasto denso – e fare la figura: cioè essere astratto e figurativo allo stesso tempo».
Nel 1952, Harold Rosenberg, in un famoso testo pubblicato su «ARTnews», descrive l’action painting come «quello che un pittore potrebbe ottenere ponendo al microscopio pochi centimetri quadrati di un Soutine o di un Bonnard». Questa lettura di fatto legittima l’espressività figurativa di Soutine agli occhi degli espressionisti astratti, suggerendo implicitamente che il percorso tracciato da de Kooning consente di superare la pura astrazione.
E decisivo è stato il ruolo che ha avuto qualche anno dopo David Sylvester, che ha studiato a fondo il lavoro di questi due artisti. Rilevando un’influenza diretta di Soutine su de Kooning, in un articolo pubblicato sul New York Times nel 1959, egli è stato il primo a offrire un confronto serrato tra i due, opera per opera. Citando esplicitamente i paesaggi di Céret, in particolare quelli presentati al MoMA nel 1950, come Vue de Céret e Toits Rouges (1921), Sylvester suggerisce che «potrebbero aver influenzato i dipinti Woman di de Kooning e i dipinti successivi come February». E questa filiazione è confermata dall’artista stesso, quando Sylvester lo incontrerà successivamente a New York.
Possiamo concludere col dire che Soutine ha rappresentato una sorta di traghettatore nella ricerca pittorica di de Kooning. L’incontro diretto con le sue opere, ma anche la mediazione del discorso critico, hanno aiutato quest’ultimo a superare il vulnus tra figurazione e astrazione creato nei primi decenni del dopoguerra. È questo che conferma il singolare posizionamento di de Kooning all’interno del movimento dell’espressionismo astratto americano: rimanere se stessi scegliendo di lasciarsi influenzare da un artista unico come Soutine. A tale proposito, molto interessante è ciò che de Kooning scrive dell’influenza su di lui di un altro artista: «è come il sorriso del gatto del Cheshire in Alice: il sorriso rimane quando il gatto è scomparso». L’influenza di Soutine si è eclissata nell’opera di de Kooning, sorridendole carnalmente.