Se nella località delle vacanze estive avete visto qualcuno aggirarsi in cerca di una rete wi-fi con maglietta a maniche corte, infradito ai piedi e computer sottobraccio vi siete probabilmente imbattuti in un lavoratore in south working. Sfogliando su Instagram l’hashtag che unisce queste due paroline inglesi dietro il cancelletto della tastiera si rincorrono immagini di pc messi a produzione su sfondi mozzafiato. C’è chi è andato in montagna e chi in collina, ma non serve un meteorologo per sapere da che parte tira il vento. Soprattutto in estate. «Non c’è paragone, almeno in questo periodo. A Roma il caldo è insopportabile, qui finisco di lavorare e in dieci minuti sono al mare. Poi tutto costa meno: fare la spesa, mangiare fuori, bere una birra. E finalmente posso trascorrere con la mia famiglia un periodo lungo, 15 anni dopo essere andata via per studiare», dice Arianna Tafuro. Si occupa di assistenza tecnica in materia di cooperazione bilaterale per Anpal servizi, a Roma. L’11 giugno è tornata a Trepuzzi, in provincia di Lecce. Conta di restarci fino a inizio settembre.

Intervenendo nella puntata di «Tutta la città ne parla» del 20 agosto, su Radio3, la direttrice centrale dell’Istat Linda Laura Sabbadini ha affermato che durante il lockdown il lavoro da remoto è arrivato a coinvolgere circa 4 milioni di persone (intorno al 20% degli occupati). Grandi sono le differenze tra i settori. A fare da traino: i servizi di informazione e comunicazione; le attività professionali, scientifiche e tecniche; l’istruzione. In questi comparti il balzo rispetto all’Italia pre-covid è stato rapido e deciso, con percentuali di smartworker moltiplicate per dieci. Finito il confinamento domestico la quota di tele-lavoratori è diminuita (al 5,3% tra maggio e giugno, secondo il rapporto Istat su situazione e prospettive del paese pubblicato il 15/06/2020). La riapertura delle regioni, però, ha permesso a molti di trasferire il nuovo «ufficio» lontano dalle grandi città.

«A inizio giugno siamo scesi da Milano a Cosenza. In tre: io, compagna e figlia. Arrivati al sud la nostra situazione è migliorata molto: maggiori spazi domestici, costo della vita inferiore, sostegno familiare nella quotidianità. Soprattutto con la bambina», racconta Luigi Gaudio, che risponde al telefono dal fresco della Sila. Lavora in un gruppo pubblicitario internazionale e si occupa di gestione delle inserzioni digitali. A Milano è andato a viverci dopo l’università, nel 2008, e ci è tornato nel 2013, alla fine di un periodo di studio tra Inghilterra e Germania.

Proprio dal capoluogo lombardo si sono sollevate le maggiori preoccupazioni rispetto al fenomeno. Già a giugno il sindaco Giuseppe Sala aveva sbottato: «Basta con lo smart working, torniamo a lavorare». Nel video trasmesso sui social il primo cittadino faceva riferimento ai «pericoli dell’effetto grotta per cui siamo a casa e prendiamo lo stipendio». Il timore è per l’economia metropolitana, che rischia di ricevere un brutto colpo dalla perdita di lavoratori, sia residenti che pendolari. Secondo IlSole24Ore potrebbero andarne via diverse migliaia tra i 100mila attirati in città negli ultimi 20 anni. Le conseguenze su valore degli immobili, entrate dei servizi pubblici e futuro delle attività private nate intorno agli uffici sono facilmente intuibili. Così la metropoli italiana che ha fatto dell’innovazione la sua bandiera prova a correre ai ripari, facendo un passo indietro. Da settembre la metà dei 7mila dipendenti del Comune di Milano che dal lockdown lavorano in remoto dovranno rientrare fisicamente al loro posto.

Piazza Duomo durante l’emergenza Covid-19, LaPresse

Le conseguenze dell’esplosione dello smart working sugli spazi urbani, ovviamente, non riguardano soltanto il capoluogo meneghino, né solo le città italiane. Il 19 agosto l’amministratore delegato di Leonardo, Alessandro Profumo, ha dichiarato al meeting di di Comunione e liberazione: «Penso che si libererà un 30% degli spazi ora occupati dagli uffici e ci saranno forti conseguenze sul mercato immobiliare». Una di queste potrebbe essere, come osservato da The Wall Street Journal a San Francisco con l’esodo dei lavoratori della Silicon Valley, la forte diminuzione dei prezzi delle case. Una cattiva notizia per i proprietari, soprattutto i più grandi, ma non per chi è in affitto o vorrebbe acquistare.

Durante il festival dell’economia di Trento, in un dialogo virtuale tra l’ex presidente dell’Inps Tito Boeri e lo studioso di economia urbana Enrico Moretti, quest’ultimo ha delineato due possibili scenari futuri: un primo in cui le grandi città si spopolano per effetto del lavoro a distanza; un secondo in cui questo è limitato e dunque, a fronte di trasformazioni urbane comunque significative, le città continuano ad attrarre forza lavoro. Nonostante colossi come Facebook e Twitter abbiano già annunciato l’intenzione di proseguire massicciamente sulla strada dello smart working, per Moretti sarà il secondo modello a prevalere: i livelli di produttività e innovazione tenderebbero a diminuire sul lungo periodo se la distanza e l’isolamento fisico dei lavoratori diventassero una condizione permanente.

«Nel mio lavoro faccio da collegamento tra fornitori e colleghi. È necessario uno scambio continuo, ma con gli strumenti digitali abbiamo ovviato bene. Del resto anche prima, quando andavo in sede, spesso alzavo il telefono invece di prendere l’ascensore o entrare in un’altra stanza», afferma Dario Tornello. Fa il buyer per una multinazionale del noleggio con sede nella capitale: si occupa di rifornire il parco automobili. Nome e cognome, in questo caso, sono di fantasia. A inizio agosto il ragazzo è rientrato in Sicilia, ma l’azienda non lo sa. Il suo è un caso tutt’altro che isolato. «Nonostante le pressioni delle attività commerciali non credo si tornerà indietro. Le imprese hanno investito in software e hardware e seguiranno la strada per loro più conveniente. Ma non tutto si potrà fare a distanza. Se potessi scegliere direi: tre giorni da remoto e due in presenza. In ogni caso in alcuni periodi dell’anno devo necessariamente stare in ufficio».

Che il lavoro tradizionale e quello smart si contamineranno è certo, ma le forme e le condizioni a cui questo avverrà saranno tutte da vedere. Così come gli effetti che questa improvvisa innovazione produrrà a lungo termine sui tessuti urbani, i modelli di impresa, le forme di organizzazione sindacale e le relazioni sociali. Ricalcando le previsioni di Moretti, si possono immaginare due scenari diversi anche per il south working: uno in cui i lavoratori abbandonano definitivamente le città e si rifugiano in provincia per sfruttare maggior potere d’acquisto e condizioni di vita ritenute migliori; un altro in cui più che a trasferimenti lineari si assiste a oscillazioni tra territori diversi nei diversi periodi dell’anno. In fondo è ciò che è già accaduto in questa prima estate pandemica. «Non credo che sarei in grado di gestire tutto il mio lavoro da giù – dice Gaudio – All’azienda voglio fare questa proposta: south working da giugno a settembre».