Le colonne sonore sono un fatto così acclarato e ovvio, nelle nostre vite quotidiane, da non meritare quasi attenzione. E qui scatta il primo equivoco. Se non faccio caso a quanto succede musicalmente attorno a me, pervasivamente, vuol dire che sono assuefatto all’avvenimento, che non ritengo degno di nota il fatto di avere una musica a commento di quanto sto facendo. Che sia in un supermercato, in un aeroporto, al telefono attendendo una risposta da un operatore che ci ha messi in un’attesa che sembra non prevedere una fine della stessa. Non è stato così sempre, non almeno fino a quando le note hanno cominciato a commentare le immagini in tempo reale, e in diretta coincidenza con quanto avveniva su uno schermo. Il resto, per dirla con i filosofi, è stata conseguenza. Sta di fatto che prima del 1927 guardare un’azione ripresa su uno schermo, e avere un riscontro in tempo reale di suono riferito a quelle azioni stesse, fu pura utopia.
Poteva esistere (ed esistette, certo) un «commento» quasi a margine, o espressionisticamente presente: un pianista di ragtime e stride music jazzistica che sottolineava dal vivo in sala certi passaggi, le note a volteggiare tra volute di fumo di sigari e sigarette come tremule colonne. Affascinante, ma sottoposto a un margine intuibile di aleatorietà. Chi avrebbe fischiettato il tema conduttore di un film muto commentato da un pianoforte, se il tema guida ancora non esisteva? Poi, il 6 ottobre 1927, il pubblico in sala che assisteva a The Jazz Singer poté ascoltare per la prima volta una canzone che sembrava sgorgare dalle labbra dell’attore, Al Jolson, ebreo russo lituano naturalizzato statunitense, faccia rigorosamente dipinta di nero, perché così usava, in tempi di discriminazione. Arrivarono poi le colonne sonore vere, per tutta la durata del film, o per buona parte di esso: a sostenere e raccordare la narrazione, diventandone parte. Una banda di luce messa a lato dei fotogrammi della pellicola, riconvertita poi in impulsi elettrici e suono, e sincrona con la successione delle immagini. Voilà. Nessuno che ascolti un fischio solitario, una chitarra elettrica «twang» o un’armonica lamentosa può evitare il rimando a Ennio Morricone e a un West immaginario diventato più vero del vero. Nessuno che abbia visto la danza dell’astronave può dimenticare il valzer di Strauss che ne accompagnava l’elegante fluttuare in rotazione. La colonna sonora è diventata parte vivente di un film. Tanto da generare il proprio fantasma, o meglio, al plurale, i propri fantasmi: la scrittura di colonne sonore per film che non esistono. E che, potenzialmente, potrebbero esistere.

Grace Slick «Manhole», 1974
Eccolo il disco capostipite che raccoglie la colonna sonora per un film che non c’è. O meglio, non c’era, ma ne accenniamo a fine paragrafo. Grace Slick nella prima metà degli anni Settanta era la trascinante musa della California acida e libertaria, una forza della natura sul palco, l’amica d’oro di Janis Joplin, suo doppio in blues, l’avvampante parte femminile degli incandescenti Jefferson Airplane. Manhole arriva quando l’Aeroplano sta perdendo quota, il carburante scarseggia, la rotta porta ad altre avventure, contemporaneamente più cosmiche e più commerciali: sarà la storia successiva dei Jefferson Starship e di un successo con i numeri grossi. Ma prima Grace Slick si mette alla prova per un disco solistico chiamando a raccolta una pletora di amici musicisti californiani della Bay Area (in pratica la Planet Earth Rock and Roll Orchestra ideata dal compagno Paul Kantner), in più la London Symphony Orchestra e il meraviglioso bassista jazz Ron Carter, uno dei grandi nella storia dal suono pastoso ed elegantissimo. Nel brano finale Epic (#38) accanto all’orchestra anche sette suonatori di bagpipe, la cornamusa scozzese. Nasce Manhole, colonna sonora per un film che non esiste e che si potrebbe supporre ambientato tra States, Messico, Penisola Iberica: in pratica la risposta freak e lievemente psichedelica allo Sketches of Spain di Miles Davis. Grace Slick era una cinefila, oltre che musicofila, cresciuta con il culto dei film di Hollywood e delle colonne sonore importanti, in più il suo primo marito, Jerry Slick, era stato studente di cinematografia. Come prova finale aveva girato un film di 45 minuti, e aveva chiesto aiuto alla moglie per preparare una colonna sonora: che Grace aveva composto tratteggiando melodie spagnoleggianti.

Evidentemente un’ossessione, quella per la Spagna e la lingua spagnola: tant’è che White Rabbit, l’inno libertario e lisergico della California da lei scritto per la Great Society, ma diventato celebre con i Jefferson Airplane, è un «calco» sul Bolero di Ravel, e Manhole alternerà spagnolo e inglese nel brano principale, creando un meraviglioso, imprendibile pastiche di suoni caldi e avvolgenti. C’è anche un omaggio all’amica Janis Joplin, volata via qualche anno prima: Better Lying Down è un bel mascheramento di Turtle Blues. Copertina con autoritratto della stessa Grace, e dipinto sul retro a raffigurare la sala di incisione. Ironia della sorte, lo scorso anno è apparso davvero un film intitolato Manhole: diretto da Kazuyoshi Kumakiri. Un thriller noir giapponese ambientato in una situazione sociale che, per paradosso, è l’esatto rovescio della California libertaria tratteggiata nel disco di Grace Slick.

Motorpsycho «The Tussler», 1994
Non cercate sulla copertina il nome della longeva e sempre creativa band norvegese, famosa per le torsioni stilistiche e i repentini cambi di estetica . Lì troverete invece un misterioso Theo Buhara presents The Tussler/Original Motion Picture Soundtrack, e in un’edizione successiva i credit vanno a The International Tussler Society. Sta di fatto che qui si tratteggiano suoni per un western che non esiste, e la cosa curiosa è che gran parte del materiale viene da dischi precedenti dell’ensemble nordico, brani rock rivisti e corretti in modo da farli sembrare pacioso e immoto country rock venato di bluegrass, chitarre acustiche e banjo sugli scudi. Un po’ come Pat Garrett & Billy the Kid di Bob Dylan, ma lì la colonna sonora era per un film vero, qui è tutto immaginario. Nel 2003 una versione deluxe e remaster aggiunge un’altra quarantina di minuti di musica, nello stesso spirito. Evidentemente il film mentale era stato concepito con piena volontà. Archeologia possibile? Conoscendo la retromaniacalità dei norvegesi sul classic rock, non ci sarebbe da stupirsi che l’idea sia balzata fuori ascoltando il primo disco dei rocciosi e poco ricordati Mountain. In Climbing!, primo disco della band, 1970, un gran bel brano si intitolava Theme from an Imaginary Western.

A Small Good Thing «Slim Westerns», 1995
Tra l’89 e il ’93 le registrazioni per questi «western smilzi» da parte degli A Small Good Thing, che, a giudicare dal suono, uno sarebbe portato a pensare come barbuti giovanotti dell’Arizona, stivali e camicie a scacchi, innamorati del sound epico e malinconico di Ennio Morricone (si ascoltino i fischi in lontananza, ricordano qualcosa?), e assieme della ambient music alla Steve Roach. Con sapiente aggiunta di echi, fruscii misteriosi, versi di animali. Invece La «piccola e buona cosa» è formata da musicisti inglesi che maneggiano corde, tastiere, piccola elettronica, e costruiscono in pratica una suite da cinquanta minuti in tredici episodi che è puro desert rock immoto e lievemente gotico. Si tratteggia la storia del fuorilegge Gerry Melody, nelle Badlands. È il primo disco, e ci sarà anche un secondo capitolo di colonne sonore per western immaginari e polverosi: Slim Westerns Vol. 2, nel 2002. Gerry Melody continua a cavalcare nel sogno.

Barry Adamson «Moss Side Story», 1989
Gran signore delle colonne sonore immaginarie, e ovviamente perfetto conoscitore cinefilo di quanto serve a realizzare sonorizzazioni in coppia con le immagini, Barry Adamson già in copertina ci regala un bello slogan in tema: «In un mondo in bianco e nero, l’omicidio porta un po’ di colore». Il mondo in bianco e nero dei film noir c’è tutto, in questo Moss Side Story: notturno, oscuro, lievemente inquietante, con quasi ovvi riferimenti al jazz, e a quel capolavoro di colonna sonora per un fim realmente esistente che fu Ascensore per il patibolo di Louis Malle, sonorizzato dal Miles Davis più cool di sempre. Ma ci sono anche archi da film horror, sintetizzatori discreti da «dark ambient», echi di pentagrammi alla Badalamenti. Primo disco solo per un musicista cresciuto alla corte dei Magazine e poi con il Nick Cave dei Bad Seeds.

Ketil Bjørnstad «Before the Light», 2002
Un po’ il contraltare in jazz nordico al country rock altrettanto nordico dei Motorpsycho di The Tussler. Qui il pianista norvegese di Oslo allestisce, con ottimi compagni di studio (Eivind Aarset alla chitarra, Nora Taksdal alla viola, Kjetil Bjerkestrand alle tastiere) una colonna sonora immaginaria per un film girato a Taipei, la capitale di Taiwan. Brani brevi con idee melodiche e temi che si ripetono, fornendo piena impressione di colonna sonora. Estetica musicale da disco Ecm, con molte aperture misteriose e «ambient», e occasionali accensioni incediarie dalla chitarra mutante di Aarset, per un «plot» che prevederebbe, nel film che non c’è, la storia di un tassista alla ricerca del suo amore perduto, e di uno scrittore alla ricerca di se stesso.

The James Taylor Quartet «The Money Spyder», 1993
Quinto disco per l’organista che, alla fine degli anni Ottanta, fu uno dei protagonisti di primo piano dell’ondata acid jazz, nome nuovo per una musica antica lustrata e ripulita a puntino, con speziati accenti di blaxploitation, che poi era il glorioso e fumigante soul jazz degli anni Sessanta, quello di Jimmy Smith, di «Brother» Jack McDuff, di Stanley Turrentine, di Lou Donaldson, e così via. Qui James Taylor immagina di costruire la colonna sonora per un film «spy caper», intrighi di spie con annessi colpi di scena: la genesi va ritrovata in Mission Impossible, minialbum precedente che ripercorreva con ardore e divertimento tracce sonore di film (veri) degli anni Sessanta. Qualcuno ha descritto calzantemente questa colonna sonora immaginaria come la tessera mancante che va a collegare l’elegante e rétro suono Brit Mod dell’Inghilterra anni Sessanta con Jimmy Smith, ed è difficile dargli torto.

Mike Jackson & the Soul Providers «The Revenge of Mister Mopoji», 1994
Ovviamente il Signor Mopoji non esiste, e di conseguenza non esiste neppure la vendetta annunciata in copertina del film inesistente da Hong Kong, dove campeggiano due figuri armati, e una misteriosa dama orientale seminascosta da un ventaglio. Esiste però l’«original soundtrack album». C’è di più, in pratica non esiste neppure la band che qui immagina di fornire note accalorate, tese e funk a uno degli innumerevoli «kung fu movies» anni Settanta, perché i Soul Providers in realtà erano la house band dell’etichetta inglese Desco, (noti poi anche come Dap-Kings) super professionisti in grado di maneggiare all’uso molti materiali diversi, ma soprattutto quanto va a lambire soul, deep funk, r&b. Con tromboni arrembanti, chitarre acidissime, sbuffi di Hammond.

Stereophonic Space Sound Unlimited «Plays Lost TV Themes», 1997
Le colonne sonore immaginarie vanno a coinvolgere anche le serie televisive, inesistenti, ovviamente, ma che sono un bel bacino di riferimento per far gioco di citazione di sonorità. Il gruppo dal nome altisonante a quattro parole è in realtà un eccellente duo svizzero, Ernest Maeschi e Karen Simpson Diblitz che ha costruito anche una fittizia narrazione su questi temi: sarebbero ritrovamenti di partiture scritte dai loro padri per serie tv degli anni Sessanta, che naturalmente esistono solo nell’immaginazione. Qui troverete abbondanza di surf music, bossa nova immancabile e space age pop, un trionfo di chitarre effettate, organo Hammond, vibrafoni, bongo, strani suoni.

The Olivia Tremor Control «Music From the Unrealized Film Script Dusk at Cubist Castle», 1992
Arriva da Athens, Georgia, la stessa città che ha dato vita ai gloriosi Rem, questa band curiosa, nota anche con altri nomi-ombra: ad esempio Black Swan Network, The Olivias, The Ships. L’ambito sonoro è la neopsichedelia, l’indie rock in varie declinazioni, il sorridente sunshine pop anni Sessanta, il lo-fi, e le fonti arrivano dai Beach Boys e dai Beatles, e ben più che qualche accenno è preso di peso dalla drone music. Doppio disco, il primo più pop, il secondo decisamente sperimentale, per un immaginario film surrealistico che sembra di veder scorrere con strane visioni, mentre si ascolta il tutto: «Il crepuscolo al castello cubista». Qualsiasi cosa voglia dire, e Luis Buñuel dall’alto dei cieli benedicente.

Paul Haig «Cinematique- Themes for Unknown Films Volume One», 1991
Ecco il primo e migliore esperimento dell’enigmatico Paul Haig con le colonne sonore per film immaginari: nel 2001 e 2003 arriveranno il secondo e terzo volume. Gran esploratore di mood diversi, qui il nostro, che molti ricorderanno come colonna del gruppo post punk Josef K, tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta, propone tre suite diverse, ognuna con sfumature particolari, ognuna divisa in diversi momenti topici: City of Fun, Lagondola (tutto attaccato!), Flashback. Basi nel downtempo, in certe sfumature jazzate, nel synth pop, per uno dei migliori lavori nella carriera del songwriter, vocalist e musicista, spesso documentata su Les Disques du Crépuscule, e dipanata su una ventina abbondante di album.

Big Chief «Mack Avenue Skullgame», 1993
Qualcuno ha detto che la miscela piuttosto calda di funk, punk e blues dei Big Chief è la promessa mantenuta di come avrebbero dovuto suonare, al meglio, i Red Hot Chili Peppers, persisi poi in mille rivoli sonori. Di sicuro questo gruppo di Detroit non ha mai avuto troppa fortuna commerciale, a differenza dei «peperoncini», mancando sempre di un attimo il momento giusto per inserirsi nel flusso grunge e dintorni. Con Mack Avenue Skullgame hanno tentato anche la carta della colonna sonora per un film immaginario, identificato da parecchi come blaxploitation, e da altri, più correttamente, come una gran caciara festosa e rock’n’roll per spiriti agitati. Diretto ed efficace, comunque: grandi riff, grande voce in azione di Thonetta Davis, sezione fiati come si deve.

Passengers «Original Soundtracks 1», 1995
I «passeggeri» che danno nome alla band sono notoriamente gli U2 al gran completo, più Brian Eno con i suoi sequencer, l’assortimento in gran pompa di tastiere, e la sua voce bizzarra. Sono una serie di canzoni scritte per un film che, all’ottanta percento, non esistono, e che quando invece sono stati effettivamente realizzati (Ghost in the Shell, thriller futuristico, documentario di Bill Carter – nel brano c’è la voce di Luciano Pavarotti -, Al di là delle nuvole di Antonioni) non usano i brani di Original Soundtrack. La faccenda è ancora più complicata e divertente: le note del disco comprendono descrizioni piuttosto accurate dei dieci film assolutamente immaginari – da Inghilterra, Sudafrica, Ungheria, Italia, Hong Kong, Giappone, Germania, nella finzione – di cui questi brani sarebbero tracce portanti. La storia dietro questo progetto è una serie di improvvisazioni tra U2 e Eno che portò alla ricca messe di venticinque ore compulsive di registrazioni. Riascoltate, tagliate e cucite, anche con l’aiuto di Howie B, ecco spuntare le «colonne sonore originali». Che tali non sono.