Si usa dire che i musicisti non siano i migliori testimoni del proprio operato. Parzialmente vero. La distanza critica, temporale, geografica, può aiutare qualche volta ad elaborare giudizi ben ponderati. Si dice anche, però (lo sosteneva Richard Kipling) che «ogni opera la sa più lunga di chi l’ha concepita», e qui si aprono interessanti prospettive, sia per chi ne è l’autore, sia per chi ne sarà fruitore in tutti i momenti a venire. L’intervista è un bel modo per direzionare il puntatore al cuore del problema, quel complesso reticolo di intenzione, capacità tecniche, poetica personale, e il resto del mondo, che comunque accoglie le opere, le contestualizza, le accorpa al flusso degli eventi. Un libro di interviste dunque è assieme un bell’azzardo e un focus interessante: perché, se condotto con cura, le interviste spesso fanno parlare «loro malgrado» i protagonisti delle estetiche praticate. Nel jazz l’ultimo apporto riferito all’Italia, ma ovviamente realizzato in un tempo che scavalca l’immediata attualità, è il nuovo libro del prolifico Guido Michelone, che con la sua serie intitolata al jazz in relazione diretta e tematica di volta in volta con i più vari contesti (le idee, le cose, l’Europa, il mondo, e via citando) va componendo una mappatura reticolare approfondita, ovviamente esposta, come è normale che accada, a corposi pieni e sporadici vuoti. Il testo è Il jazz e l’Italia/Cento musicisti si raccontano 1923 -2023 (Arcana), quasi 500 pagine, il 98 percento delle quali occupate da estese interviste che iniziano con la «a» di Carlo Actis Dato, sassofonista-folletto la cui figura è per certi versi vicina a quella di un altro eretico inventivo del jazz, Daniele Sepe, opportunamente anch’egli intervistato. Bordeggiando per le coste italiche nel gran mare del jazz si incontrano poi figure imprescindibili come Furio Di Castri, Franco D’Andrea, Maria Pia De Vito, Giorgio Gaslini e via citando, sino ad arrivare alla «z» di Cristina Zavalloni, a proprio agio, proprio come De Vito, nei più diversi contesti stilistici senza confini di genere. Dunque, per usare le parole dello stesso autore, ne sbalza fuori «una storia sui generis, un viaggio nella memoria, una riflessione generazionale su un credo artistico». Ovviamente è lo stesso autore a riconoscere che neppure un testo di questa mole può essere esaustivo, e per varie ragioni. Attendiamo dunque un «volume 2» o addirittura un «volume 3»? La realtà del jazz italiano sarà anche sottotraccia, ma è imponente.