Il sorriso fa brillare l’azzurro degli occhi, accompagna le parole con delicatezza, intorno a lei tutto sembra luminoso e sereno. Laurie Anderson negli anni ’80 con i flussi elettronici dei suoi suoni ha conquistato la scena musicale, performance, sperimentazione, erano i tempi di O Superman, superficie solida e profondità liquida che quella strana ragazza mischiava insieme con irriverenza. Oggi somiglia ancora a un folletto coi capelli cortissimi e la camicia chiusa fino all’ultimo bottone. Sembra fluttuare nell’aria e liberare intorno a sé all’improvviso un sentimento di meraviglia: il privilegio dell’ascolto, di saper guardare gli attimi oltre il loro incedere. Heart of a Dog è dedicato a Lou Reed, con cui ha diviso la vita a lungo, che appare in alcuni momenti, e alla fine insieme a Lolabelle, la cagnolina di Laurie Anderson in un tenero abbraccio, mentre la sua voce risuona con le note di Turning Time Around.

« Lou è nel film in moltissimi modi» spiega Anderson a chi le chiede se ha mai pensato di fare un film su di lui. «Fa parte di molte delle storie che vengono raccontate, e in alcuni momenti appare, lo vedete nel ruolo del veterinario della clinica per animali in cui avevamo portato Lolabelle quando stava molto male. Ci siamo divertiti a girare quelle scene perché abbiamo avuto un’intera ala ospedaliera a nostra disposizione per giocare con tutti i macchinari! Il suo spirito permea ogni immagine, ci sono state lunghe discussioni tra noi nel corso degli anni sul concetto di forza, e su come si possa esprimere. Lui mi ha insegnato molte cose preziose su questo, e con Heart of a Dog spero di esserci riuscita».

Cosa l’ha spinta a realizzare un film?
In realtà è stata Arte a propormi di fare qualcosa. Mi hanno chiesto di pensare a un saggio personale attraverso il cinema e ho cominciato a mescolare molte delle cose che ho sempre fatto: disegni, fotografie, storie e mi sembrava un processo interessante. Le immagini permettono di entrare in un altro mondo, di seguire diverse ispirazioni, di mescolare spunti, di avventurarti nella memoria, nel sogno. Sogniamo perché ricordiamo, e questa idea della memoria è un po’ il centro del film. Mi piaceva esplorare i modi in cui raccontiamo le storie, come classifichiamo le persone , come loro ti vedono. Il film non è su di me ma uso alcune delle mie storie per spiegare come le cose possono essere raccontate.

A un certo punto parla di sua madre, di quanto è stato difficile per lei che non l’amava starle vicino quando stava morendo. E del suo desiderio di ricordare un istante di amore da parte da sua. É molto personale, ma questa intimità ci porta sempre a un pensiero sul linguaggio.
Mia madre era una persona molto formale e molto orgogliosa, ha aspettato che tutti noi figli fossimo intorno al suo letto per farci un discorso. Ha preso in mano il microfono per dire «grazie per essere qui questa sera» ma poi, nel suo stato di allucinazione, finiva per parlare degli animali che popolavano il suo soffitto. Di fronte a questa scena incredibile ho cominciato a riflettere sulla forza del linguaggio, è un qualcosa che mi ha fatto molto impressione proprio perché veniva dalla persona che mi aveva iniziato alla parola. Ci sono molti giochi di specchi nel film. Ma volevo incoraggiare lo spettatore a guardarlo attraverso gli occhi del narratore, che a volte sono quello del cane, altre quelli delle telecamere di sorveglianza. Non c’è un eroe, si deve usare l’immaginazione per ricreare i personaggi, un po’ come quando si ascolta un radiodramma.

Il racconto personale ci porta al tempo stesso sempre nel presente, nella nostra società, tra i suoi fantasmi. Sono molto presenti le immagini delle telecamere di controllo.
L’ossessione della sicurezza è costruita sulla forma. Per rappresentare un concetto è più efficace un’ immagine che molte parole. Ho voluto mostrare alcuni aspetti di sicurezza interna agli Stati Uniti perché il cielo nel mio film ha un doppio valore; è simbolo di libertà ma anche di paura, sono immagini che si incrociano e si contagiano una con l’altra.