«Coloro che ti guardano non devono vedere il tuo Io, /e tu stesso non devi pensare a questo Io quando sei sulla scena. /Guarda la parte, qualunque sia il ruolo che devi recitare». Sono le parole che il grande attore Mei Lanfang (1884-1961) scrisse nella sua autobiografia, per spiegare al (nuovo) pubblico la sua tecnica teatrale e la sua maestria nel rappresentare i ruoli dan, femminili. E fu proprio lui, figura lacerata dalle contraddizioni di un mondo che stava cambiando e dalla crisi degli antichissimi codici dell’opera di Pechino, a vivificare la scena con la sua presenza straniata. La potenza del suo sguardo e del suo corpo disidentificato e disincantato (capace anche di autocontemplarsi) non sfuggì a Bertolt Brecht quando si trovò a Mosca, seduto fra gli spettatori, ad ammirare la figura di quell’artista sublime. Era il 1935 e la Cina del drammaturgo tedesco (a cui gli dedicherà anche una pièce, L’anima buona di Sezuan) fino a quel momento era stata un paese immaginario, dove far precipitare istanze politiche, sociali e culturali (lotta proletaria e contadina con riscossa dalla miseria). Qualcosa scattò e sedusse Brecht tanto da attribuire il dono della perfezione al metodo cinese, in grado di realizzare quello scarto dell’immedesimazione che conduceva lontano dal teatro borghese.

Parte da qui, da quell’incontro folgorante la mostra ai Frigoriferi Milanesi The Szechwan Tale, a cura di Marco Scotini (già precedentemente allestita come sezione particolare della Biennale di Anren, ora visitabile fino a domenica) e si sviluppa come fosse una rete di rimandi continui: il gioco e il rovesciamento teatrale, il rispecchiamento, l’esperienza fisica del travestimento e dello smascheramento. I visitatori stessi sono invitati all’ingresso da Michelangelo Pistoletto, maestro di sdoppiamenti scenici, a indossare abiti comprese le uniformi dell’Esercito Popolare), mentre nella stanza accanto è Qiu Zhijie a offrire la possibilità di metamorfosi attraverso maschere caricaturali che riprendono quelle delle feste cinesi.

Proiezioni miste ad animazioni reinterpretano il teatro ad esemplare contenuto rivoluzionario: a intessere quelle fantasmagorie è il sudafricano William Kentridge, artista avvezzo ai palcoscenici dell’opera, che qui non rinuncia alla liaison pericolosa tra colonialismo cinese e identità africana. Come in una lanterna magica scorrono le immagini di una utopia di ribaltamento della società, la stessa che raccoglie in 763 minuti di filmati Joris Ivens raccontando l’origine della Cina attuale. In mostra, vengono presentate le sequenze sull’Opera di Pechino, il backstage, le prove, la preparazione a quegli affreschi cromatici in movimento perpetuo della propaganda ad uso e consumo della Rivoluzione culturale.

Potere e insubordinazione sono i due poli entro cui si «espande» la mappatura iconografica di Peter Friedl che attraverso le sue marionette in cerca di autore tenta un reenactment della storia. Ma la narrazione più accattivante, data la capacità della finzione di confondere i suoi contorni con la realtà è quella di Zhuang Hui & Dan’er. Nello Yumen, là dove il petrolio dettava i ritmi della vita dei suoi abitanti, sessant’anni dopo il paesaggio è apocalittico: senza più lavoro a causa del prosciugamento dei pozzi, tutto è in decadenza e in procinto di essere abbandonato. Gli artisti hanno aperto uno studio fotografico e cominciato a ritrarre, come memoria e testimonianza, le persone che ancora vivono in quel luogo pronto a diventare un bozzolo vuoto del passato.