Il chiacchiericcio tra studenti, le ansie per gli esami e qualche piccolo tormento del cuore. L’atmosfera bucolica che introduce The Rain – serie in otto episodi dal 4 maggio su Netflix – sembra più vicina a una teen comedy che a un thriller, com’è effettivamente questa produzione danese i cui primi due episodi sono stati presentati in anteprima a See what’s next, l’annuale convention sulle novità della piattaforma digitale quest’anno organizzata a Roma (18 e 19 aprile) nella cornice di Villa Miani, in cui era presente tutto il team, in testa Ted Sarandos.

Ma sono solo poche scene, poi si precipita nel dramma. Il padre della giovane protagonista (Alba August, vista in Reliance), irrompe in facoltà e la costringe a lasciare i compagni. Insieme alla madre e al piccolo fratello devono mettersi in salvo: una catastrofe sotto forma di una pioggia acida letale per gli uomini, incombe. Entrati nel bunker la ragazza e il fratello ne usciranno solo sei anni dopo, quando l’epidemia avrà fatto strage (o quasi) di tutta la popolazione.

The Rain – creata da Jannik Tai Mosholt, Wesben Toft Jacobsen e Christian Potalivo – si inserisce nel solco dei drammi post-apocalittici ma rispetto a Walking Dead – dove il pianeta terra è devastato dagli zombie – non sembra indulgere in atmosfere splatter o gore. Siamo più dalle parti di The 100 e ai suoi desolati panorami: i protagonisti si muovono nella foresta, dove il pericolo può nascere da un cecchino appostato dietro un cespuglio quanto da una pozzanghera contaminata in cui si mette inavvertitamente il piede. Poi la sceneggiatura non lesina sottotrame più convenzionali, relazioni e gelosie e le cattive abitudini della vecchia società che si pensavano abbandonate pronte a riaffiorare. L’unica certezza è che per restare vivi – come annunciano agli spettatori le ’maschere’ di sala intabarrate in un impermeabile – «bisogna stare sempre all’asciutto».

«In Danimarca – spiega Mosholt – non giriamo questo tipo di storie. In Europa sono affascinati dal nostro modo di mettere in scena i noir intrisi di malinconia, ma The Rain è un genere mai affrontato prima». Vero, anche se elementi tipici dell’immaginario nordico resistono e sono ben presenti nello script: «È stato fondamentale rappresentare i luoghi da dove proveniamo – sottolinea Potalivo – la società danese, poi, è molto strutturata e noi abbiamo voluto scompaginarla immaginando come sia in grado di affrontare un evento che la destabilizza». Una storia distopica che può accadere ovunque.

Certo, l’idea di usare la pioggia come propagatrice di virus è metafora: «Di un luogo dove effettivamente piove moltissimo». Cinque mesi di riprese, una più che probabile seconda stagione, la serie proposta in 129 paesi, mantiene però un anelito di speranza: «Gli adulti – chiosa Mosholt – hanno lasciato alle nuove generazioni un mondo fatto di caos. Ai giovani tocca l’onere di tornare a essere umani in un mondo senza umanità».

La fiction danese si inserisce in un processo di inevitabile internazionalizzazione che porta Netflix (125 milioni di abbonati, 300 milioni di profili aperti) a stringere accordi con partner come Sky e aumentare l’offerta di archivio. Cinquantacinque i titoli in lavorazione, attesi la tedesca Dogs of Berlin, 1983, Norway di Paul Green Grass, Maniac di Cary Fukunaga con Emma Stone, Turn Up Charlie con Idris Elba. Attenzione puntata anche su titoli italiani come: Luna nera, storia di un gruppo di donne accusato di stregoneria nel XVII secolo, la seconda stagione di Suburra mentre il 4 maggio arriva Rimetti a noi i nostri debiti, film di Antonio Morabito con Claudio Santamaria e Marco Giallini.