Nessuno gli dedicherà mai un francobollo ma la storia di Jimmy Ellis lo meriterebbe. Quella voce, quella maschera, quella “mise” stile Las Vegas: una star mancata, dimenticata. Orion ha vissuto appena appena sotto la superficie della cultura pop Usa senza riuscire mai ad affiorare. E il suo talento è stato anche la sua condanna: una voce identica a Elvis, non per scelta ma per puro caso, non impostata, ma assolutamente naturale. Per questo tutti lo schivavano convinti che ci giocasse, ma non era così. Nato nel 1945 a Pascagoula, in Mississippi, Ellis morirà in circostanze tragiche nel 1998 in Alabama, in mezzo tanti tentativi per emergere e farsi conoscere. La sua vita artistica è legata a quella di Elvis e sboccia nel momento in cui Presley muore. Di più: con Orion e solo grazie a lui nasce la nota leggenda urbana che «Elvis is alive», che Elvis è ancora vivo. Tutto comincia nel 1972, quando a nome Jimmy Ellis, il cantante fa uscire per la Sun, la storica etichetta di Presley, i pezzi “That’s Alright” e “Blue Moon of Kentucky”; diciotto anni prima, nel 1954, Elvis debuttava proprio con quello stesso singolo e con la stessa casa discografica.
Nel 1978 quel 45 giri arriva nelle mani di Shelby Singleton, nuovo proprietario della Sun, che lo ottiene da Finley Duncan (il primo produttore di Ellis) e che lo pubblica con un punto interrogativo al posto del nome del cantante. Singleton sa già a cosa puntare, coltivare l’anonimato destando sensazione intorno a una voce che sembra Elvis. Già qui il pubblico comincia a chiedersi da dove vengano quei pezzi e tra le illazioni c’è chi è convinto che siano versioni inedite di Presley, appena riaffiorate. La storia che Elvis è ancora vivo, comincia dunque a plasmarsi. Nel ’78 arriva anche un album “Duets-Jerry Lee Lewis and Friends” in cui la voce di Ellis è sovraincisa e accompagna quella di Jerry Lee Lewis. Sembra davvero Elvis, in particolare nel pezzo “Save the Last Dance for Me”. I fan di Presley sono spiazzati e anche qui qualcuno ritiene che siano vecchi rimasugli del catalogo Sun. Poi, finalmente, nel 1979 nasce Orion. Un anno prima Singleton si era imbattuto nel manoscritto di Gail Brewer-Giorgio, scrittrice della Georgia che prima della morte di Elvis (1977) aveva ultimato “Orion”, romanzo dedicato a un omonimo cantante di rock’n’roll che per sfuggire alla pressioni del successo simula la propria morte. Affascinata da Elvis, la scrittrice aveva modellato il suo Orion su Elvis. Per Singleton era manna dal cielo. Ad aprile 1979 emette il seguente comunicato stampa: «Presto un nome che non dimenticherete mai, Orion. Su Sun, dove tutto è iniziato e sta per ricominciare»; a mano, accanto al testo, il disegno di una maschera. Un mese dopo l’annuncio il discografico invia alle radio Usa un 45 giri senza etichetta e dettagli di alcun tipo. All’interno due pezzi: “Honey” e “Ebony Eyes”. Il mistero è fitto, il pubblico vacilla, perché quello sembra davvero Elvis. Di lì a poco tocca all’album, “Reborn”, cioè rinato, un titolo che non lascia scampo. Fin troppo esplicativo.
La copertina scatena subito grandi controversie: in una bara c’è un uomo mascherato che si desta e riaffiora dal regno dei morti; iconograficamente il disegno rimanda all’Elvis dei tempi di Las Vegas, stessa “mise”, stessi colori. La copertina, però, bisognerà cambiarla e si sceglierà un’immagine più sobria ma altrettanto inquietante: su uno sfondo blue si staglia un uomo mascherato con crine folto e tipico ciuffo rockabilly. Orion è ora libero per il mondo e in particolare per gli Usa. C’è solo un particolare: la maschera è d’obbligo, quella non si tocca, non potrà mai essere tolta; ogni deroga, ogni eccezione – così narra la leggenda – verrà punita da Singleton con aspre multe.
Il pubblico accorre ai concerti, a centinaia, a migliaia. Molti sospinti da quella voce inconfondibile, altri dalla maschera e dal curioso mistero che la circonda. Orion attraversa l’oceano e – maschera per maschera – in Germania si esibirà addirittura con i Kiss. Per la Sun usciranno sette album, tutti perfettamente funzionali al «progetto Orion»: di lui si diceva che avesse addirittura un manager chiamato Colonnello Mac Weiman e che fosse nato a Ribbonsville, Tennessee, il 31 dicembre 1931. Insomma, più Elvis di così. Nel frattempo il pubblico continuava a dividersi, da un lato chi credeva che Jimmy Ellis si divertisse a fare il King e dall’altro chi era davvero convinto che quello fosse Presley, il redivivo. E però, Ellis cominciava a stancarsi. La maschera era un prigione da cui rifuggire, che nascondeva le reali doti di un artista che per un incredibile caso del destino sapeva solo cantare come Elvis. Da qui al rifiuto totale del personaggio interpretato fino a quel momento.
Nel 1983 Ellis dichiara pubblicamente di essere lui Orion e che lascerà per sempre la Sun. Da qui una girandola di identità da cui ripartire senza maschera: Ellis James, Mister E, Steven Silver. Ma niente, successo e consensi non sono più quelli di prima. E siamo al 1987 anno cruciale per Jimmy Ellis. Una sera, mentre è a Mobile, in Alabama, il cantante ferma due uomini e chiede informazioni su come arrivare a un ristorante; uno dei due è convinto che Ellis sia un poliziotto, è su di giri e tira fuori un’arma mentre l’altro lo perquisisce. Ellis oppone resistenza, cerca di difendersi e alla fine fugge. I due gli sparano mentre corre e fuggono. Il cantante sopravviverà e l’anno dopo sarà di nuovo sui palcoscenici Usa. Continua a farsi chiamar Steven Silver ma il richiamo della maschera è troppo forte, un’orribile trappola, una lusinga a cui non si può sfuggire. Firma per una nuova etichetta e decide di riprovare come Orion. Pubblicherà singoli come “I Want You, I Need You, I Love You” e “Love It Back Together”. Addirittura si esibirà dal vivo accompagnato dai Jordanaires, i coristi di Elvis.
Poi nel ’98 la tragedia: il 12 dicembre Jimmy Ellis viene assassinato in Alabama durante una rapina finita male. Era in un «compro oro». Di lui restano singoli, album, ristampe e una voce che a risentirla ancora adesso mette i brividi.