Insieme a Hemingway e Faulkner, Fitzgerald e Caldwell, John Steinbeck ha costituito, per le generazioni di lettori italiani formatesi a cavallo della Seconda guerra mondiale, il viatico verso una letteratura americana percepita come baluardo della democrazia e modello di scrittura diretta, vitale, non estranea alle ricerche e alle innovazioni formali del modernismo ma capace di trascenderne il senso di estenuazione e di chiusura e di proporre una visione del mondo in perfetto equilibrio tra individualismo e sensibilità sociale. Abbracciato come un maestro dalla nostra intellighentsia di sinistra, identificato senza remore quale massimo esponente della letteratura proletaria degli anni trenta, Steinbeck rimane, per la critica nostrana ma anche per quella statunitense, l’autore di un capolavoro che trascende la sua epoca, Furore, di un altro, grande libro che dagli anni del New Deal non si è mai completamente riscattato, La battaglia, e di due romanzi brevi di duraturo e meritato successo, Pian della Tortilla e Uomini e topi.

Una produzione che si colloca tutta in un lasso di tempo brevissimo (dal 1935 al 1939) e che viene seguita da un trentennio di opere minori, accolte come tentativi stanchi e poco convinti di ritrovare la vena comico-picaresca di Pian della Tortilla (La corriera stravagante, Vicolo Cannery) o di prendere di petto il crescente consumismo della società americana, esaltando figure devianti e tentate dal crimine (L’inverno del nostro scontento).

Unica eccezione è rappresentata da La valle dell’Eden, pubblicato nel 1952: un romanzo gigantesco, al confine tra autobiografia, epopea, riscrittura biblica, che lo stesso Steinbeck considerava il vertice del suo itinerario di scrittore, al punto di affermare: «Penso che tutto ciò che ho scritto è stato, in qualche modo, di preparazione a questo».

Accolto con stupore e ammirazione per il gigantesco sforzo compositivo, la complessità della struttura e la varietà dei registri stilistici, che sembravano riportare ai fasti di Furore, La valle dell’Eden occupa una strana posizione nel canone del romanzo novecentesco: un’opera per certi versi «fuori tempo massimo», perché legata a una concezione epica e western già ripudiata dai nuovi maestri del romanzo americano (da J. D. Salinger a Saul Bellow, a Norman Mailer), eppure capace di rappresentare con efficacia senza pari il conflitto generazionale, l’eterno scontro tra padri e figli che contraddistingue tutte le società in vertiginosa evoluzione, e che trova nel volto corrucciato e nella recitazione implosa di James Dean, protagonista della fortunata versione cinematografica del romanzo, firmata da Elia Kazan, il suo perfetto corrispettivo.

Ora, La valle dell’Eden ci viene restituita dall’editore storico di Steinbeck, Bompiani, in una nuova traduzione di altissima qualità, firmata da Maria Baiocchi e Anna Tagliavini (pp. 762, euro 15,00), ed è corredata da un’ottima introduzione di Luigi Sampietro, particolarmente attenta nel ricostruire la genesi del romanzo e l’ambizione che lo muove, legata a doppio filo al genuino populismo di Steinbeck e alla lezione dei suoi veri maestri, i trascendentalisti americani: raccontare un mondo post-edenico, segnato dal peccato originale e dal marchio di Caino, ma non per questo condannato all’irrilevanza o al decadimento.

Per usare le parole dello stesso autore, in una lettera opportunamente citata da Sampietro e fortemente polemica nei confronti dei «sudisti della ‘Cintura delle Nevrosi» e degli «scrittori hard-boiled»: «È pur vero che siamo fragili, brutti, meschini e litigiosi, ma, se quel che siamo fosse tutto qui, saremmo scomparsi dalla faccia della terra ormai da millenni. Questo oggi mi sento di dire, e lo voglio dire in modo chiaro, sì che non lo si debba dimenticare leggendo quanto di terribile e increscioso seguirà in questo libro; e perché il territorio a est dell’Eden non è l’Eden, questo certamente no, ma nemmeno si può dire che si collochi a un’insuperabile distanza».

Questa dichiarazione di poetica si traduce, sul piano strutturale, in un’opera fortemente binaria, incentrata su due distinti nuclei famigliari: gli Hamilton, che migrano dall’Irlanda nella Valle di Salinas e altro non sono che il ceppo materno dell’autore, il quale compare brevemente nel romanzo, e i Trask, che in quella stessa Valle arrivano dall’Est atlantico. A ciascuna delle famiglie corrisponde un modo narrativo, una visione della Storia e del ruolo dell’uomo al suo interno: nel caso degli Hamilton, a venire messa in scena è la sostanziale armonia di un nucleo che, raccolto attorno al patriarca Samuel, si lega a una terra arida e ingrata, e grazie all’ingegnosità, alla testardaggine, al coraggio, all’amore, vi conquista un proprio ruolo e una dignità temprata dalle fatiche.

I Trask, invece, incarnano il perenne conflitto tra generazioni e tra fratelli, condannati a contendersi l’affetto del padre, che ha nella storia biblica di Caino e Abele il proprio archetipo, e nello scontro tra Charles e Adam prima, e tra Cal e Aaron poi, altrettante coniugazioni, complesse e affascinanti. Ulteriore nucleo del libro, al quale Sampietro riconosce una funzione autonoma, definendolo «una sorta di frammentato romanzo gotico all’interno di un dramma pastorale», è la storia di Cathy Ames, moglie di Adam Trask e madre fuggiasca di Cal e Aaron, incarnazione pura e in quanto tale illeggibile del marchio di Caino, che reca impresso sulla fronte.

La vita delle due famiglie scorre parallela nella prima parte del romanzo, per poi incrociarsi e fondersi nell’incontro tra Samuel Hamilton e Adam Trask, nel quale il patriarca restituisce al giovane Adamo la vita che Eva e il serpente (uniti nella figura di Cathy) gli hanno sottratto, lo aiuta a «battezzare» i suoi figli – ancora senza nome – e gli trasmette il sogno di una continuità generazionale, che assorba il conflitto e lo trasformi in energia positiva: «Lasciamo sempre qualcosa in eredità, qualsiasi cosa facciamo e anche se non facciamo niente. Anche se abbandoni tutto, cresceranno le erbacce e i rovi. Qualcosa cresce sempre».

Nelle parole di Samuel prende corpo quello che è il quarto nucleo del romanzo, in grado di racchiudere e trascendere le vicende umane che vi si svolgono: la storia della vallata, l’alternarsi delle stagioni, le grandi siccità e i giorni delle piogge, la bellezza sublime e spietata della terra, refrattaria a chi pretenda di cambiarla quanto accogliente e generosa verso chi sa adattarsi ai suoi ritmi, e abbracciarli.

Le pagine memorabili in cui la valle di Salinas prende vita davanti ai nostri occhi hanno lo stesso respiro epico di Furore, e confermano in Steinbeck l’erede degli slanci panici che, da Emerson e Thoreau e Melville, hanno scandito la nascita della grande letteratura americana. Meno felici, a tratti di maniera, sono i capitoli dediti a illustrare la naturale bontà degli Hamilton, che impallidiscono di fronte al dinamismo e alla potente penetrazione psicologica che l’autore dispiega quando deve affrontare la storia della famiglia Trask, o di Cathy Ames.

Un paradosso che a Steinbeck non sfuggiva di certo, e che viene esplicitato, con quella libertà che i grandi autori esercitano rispetto ai loro stessi progetti e ambizioni, in uno dei capitoli centrali de La valle dell’Eden: «Penso che il male debba essere continuamente ritessuto, mentre il bene, la virtù, sono immortali. Il vizio ha sempre un volto nuovo, giovane e fresco, mentre la virtù è venerabile più di ogni altra cosa al mondo».