La cosa importante è ricordarsi di sorridere. Sempre. Ti spiegano addirittura come fare: tendi gli angoli della bocca verso le orecchie, lascia scoperti appena i denti davanti, guarda il cliente sul mento, così non lo metti in imbarazzo fissandolo negli occhi. Tutto questo sempre, in ogni momento delle infinite giornate di lavoro nei fast food McDonald’s. Non è un’impresa facile, c’è sempre qualcosa da fare: quando la sala è piena ogni richiesta va soddisfatta nel tempo limite di tre minuti e mezzo, dall’ordinazione alla consegna. Quando non c’è nessuno c’è da pulire, mettere a posto la cucina, dare una botta di straccio al bagno, svuotare i secchi dell’immondizia, le sedie in ordine, i tavoli disposti in base a una calcolatissima asimmetria. E il «dress code», uguale per tutti: pantaloni, camicia e cappello.

Devi essere l’archetipo dell’efficienza: il cliente deve essere solo soddisfatto, ma non deve accorgersene troppo. L’anonimato brillante del McDonald’s: tutto studiato per non dare troppo nell’occhio, per essere sempre uguale, caldo e rassicurante come una casa; dai sapori alle facce, tutto deve essere com’è sempre stato. I fast food ormai fanno parte dell’arredamento urbano, soprattutto in provincia tutti sanno dov’è il McDonald’s, che spesso diventa un punto di riferimento: «Abito sulla Nazionale, duecento metri dopo il Mac». Non puoi sbagliarti.

L’offerta di lavoro ha un che di allettante. Ed è facile. Ti colleghi al sito, mandi il curriculum e ti chiamano quasi subito. Ti spiegano cosa gli serve, come devi fare, buttano qua e là qualche metafora sportiva sulla «squadra» a cui dare tutto, ti fanno sentire importante, un ingranaggio di una macchina che corre più veloce della luce. Chi scrive ci ha provato, ma il tentativo è stato goffo oltre che vano. Ai responsabili delle risorse umane è bastato cercare un po’ su Google per capire che non si trattava di una sincera richiesta di lavoro, e che il curriculum era in tutto e per tutto fittizio: «Non credo abbia senso fare un colloquio, a questo punto», ha detto una voce inspiegabilmente gentile dentro il telefono.

Non restava che fare il percorso inverso: andare alla ricerca di chi al fast food ci ha lavorato davvero. Sono tanti: provate a chiedere ai vostri amici, scoprirete che in molti ci sono passati, per quelle cucine. E i racconti sono un po’ tutti uguali.

Riannodiamo i fili: compili la scheda sul sito, mandi il curriculum – oppure ci arrivi tramite un’agenzia di lavoro interinale –, ti richiamano e ti dipingono davanti agli occhi un mondo bellissimo, una famiglia in cucina che fa felici grandi e bambini di tutto il mondo. E poi buttano lì i particolari più interessanti: McDonald’s paga tutti i mesi. E le mensilità sono quattordici. E il 94 percento del personale è assunto a tempo indeterminato. Sullo sfondo l’idea di una vita finalmente normale: uno stipendio vero, un contratto, una collocazione sociale, qualcosa da poter sventolare in famiglia quando ti chiedono cosa fai nella vita.

All’inizio sei tra i crew: 24 ore alla settimana e 814,35 euro lordi di stipendio minimo al mese (più bonus). Alla lunga puoi diventare manager (1.600 euro) e alla fine direttore (2.036 euro). La carriera è veloce, dicono, se sei sveglio in un paio d’anni puoi passare da ultima ruota del carro a padrone del vapore. Mentre firmi il contratto stai già pensando di ricomprare il computer.

La voce del direttore del personale ripete le solite parole, sempre uguali, frutto evidente di un qualche corso d’aggiornamento: «Chi lavora da McDonald’s deve avere voglia di darsi da fare, di imparare a fare diverse cose in modo impeccabile, di sostenere la pressione nei momenti di picco, di rendersi disponibile quando c’è bisogno di una mano, di seguire tutte le regole imposte dagli alti standard di sicurezza, efficienza e qualità che McDonald’s si è data e dà ai suoi dipendenti». Ovvero: potranno chiederti di lavorare di notte, o tutti i week-end, o di prolungare il tuo turno. È la cara vecchia «flessibilità», termine arrivato in Italia un decennio fa direttamente dalla reaganomics: la «flex security», che in realtà è tanta «flex» e poca «security».

Il collega più esperto – sorride anche lui, ma i suoi occhi sono pieni di disillusione – ti spiega anche qualche trucco del mestiere: le bibite sono meno gassate rispetto ad altrove, serve a riempire meno, così il cliente è più portato a ordinare un altro hamburger. Segue una strizzata d’occhio complice.

Ma è importante anche «attenersi ai tempi prestabiliti» e sapere che c’è un tempo pure «per andare in bagno, come avviene in tutte le attività professionali in cui il rispetto coordinato dei tempi è un fattore chiave per la qualità del lavoro». Tradotto: da quando ottieni l’autorizzazione per andare a quando tiri l’acqua devono passare al massimo 58 secondi. Ogni azione è cronometrata: dopo i tre minuti e mezzo di tempo massimo per servire il cliente, la cassa comincia a illuminarsi per segnalare che si è fatta ora di chiudere i conti. In cucina, anche i macchinari hanno lucine di diversi colori, e quando la cottura è ultimata cominciano i «bip». Ogni attrezzo ha il suo, di «bip». Alla lunga impari a distinguerli uno per uno: acuto e prolungato è il toastapane, grave e secco è la piastra degli hamburger, intermittente vuol dire che devi cambiare l’olio alla friggitrice. E così via. Anche quando sei in mezzo a una sinfonia di «bip», immerso tra le luci, con la friggitrice che va e il pane che comincia ad abbrustolirsi troppo non devi dimenticarti di sorridere.

Sembra la famosa scena di «Vieni avanti cretino», quando Lino Banfi, ormai reso pazzo dal continuare ad accendere e spegnere interruttori vari, continua a sentirsi ripetere da un memorabile Alfonso Thomas che «la sua soddisfazione è il nostro miglior premio». E infatti quando da semplice crew combini qualche danno, il tuo superiore non si arrabbia, ma assume un tono affranto e paternalistico allo stesso tempo mentre ti spiega che hai fatto del male a te stesso. Te lo dice davanti a tutti, mentre i tuoi colleghi scuotono la testa con aria contrariata. Qualcuno ti dà anche una pacca sulla spalla: evidentemente vuole fare carriera in fretta.

L’azienda ti ama e tu devi amare l’azienda: è per questo che la pausa pranzo (o cena) consiste in un McMenu a tua scelta, senza la possibilità di andare al bar di fronte o di portarti qualcosa da casa.

I più convinti chiamano questo spettacolo «cultura del lavoro» e serissimi aggiungono che «il lavoro rende liberi», dimenticando come e perché questa frase è passata alla storia. E alla fine viene il dubbio che questa macchina possa funzionare solo a queste condizioni.

D’altra parte i numeri sono quelli di un esercito: 16mila dipendenti, 140 milioni di panini, 2 milioni di porzioni di frutta e 8 milioni di insalate preparate e vendute ogni anno. Questi i numeri ufficiali. Ogni piatto ha una vita massima di otto minuti, superata questa soglia chi sta al banco deve buttare via tutto. In fondo, al McDonald’s un hamburger costa appena 40 centesimi. Quando finisce la giornata, torni a casa ed emani un inconfondibile odore di fritto. Se sei molto bravo, però, sai benissimo cosa fare anche in questa situazione.

Sforzati. E ricordati di sorridere.