Da più di un decennio si sostiene che nel caso delle acciaierie lo «scontro salute-lavoro» sia inevitabile. Ieri però alla manifestazione nazionale per lo sciopero dei lavoratori di Taranto e Piombino faceva impressione sentire come gli slogan partissero tutti dalla parola «salute». Intendiamoci, non che questa parola sia mai mancata nelle rivendicazioni sindacali; vero però che difficilmente era al primo posto e arrivava dopo la tutela dei posti a rischio. È come se il Covid – e la risposta tramite i fondi europei – avesse portato negli operai la consapevolezza che la propria salute venga prima di tutto, specie ora che la riconversione tecnologica è indispensabile e finanziariamente possibile. Dunque accanto alla «salute» c’è subito la rivendicazione di una «riconversione verde» che parta dai forni elettrici decarbonizzati molto meno inquinanti degli attuali ma per i quali servono molti meno lavoratori e dunque di «tutele» per chi rimarrà fuori.
I circa 600 lavoratori ex Ilva e ex Lucchini – due «ex» che danno il senso di precarietà della siderurgia italiana – sono arrivati ieri mattina a Roma e dalla stazione Termini hanno raggiunto in corteo il ministero dello Sviluppo. Sotto quel Mise dove sono stati già tante volte per le loro singole crisi aziendali – Ilva poi Mittal per i tarantini e i genovesi, Lucchini poi Jindal per i piombinesi, senza dimenticare la delegazione da quella Terni che dopo un lustro di tribolazioni ora è passata sotto la proprietà cremonese di Arvedi – hanno chiesto di essere ascoltati dall’ennesimo governo sordo alle loro richieste, prima fra tutte quel Piano siderurgico nazionale promesso da mesi e ancora fantasma.
La rabbia dei lavoratori è aumentata per l’assenza ormai cronica del titolare del Mise: il ministro leghista Giancarlo Giorgetti che ai lavoratori preferisce gli imprenditori. Al suo posto la viceministro Alessandra Todde – che seguiva il dossier Piombino ma non certo quello Taranto e il neo «coordinatore» delle crisi aziendali Luca Annibaletti. «La data per un tavolo non c’è – dice uscendo dall’incontro Rocco Palombella, segretario generale Uilm ed ex operaio di Taranto – , sul piano non sanno cosa dirci. A questo governo – spiega deluso davanti ai lavoratori – dobbiamo dire: ci avete offeso, perché non sono stati neanche in grado di dare una data di incontro».
Poco meglio è andata su Piombino: il tavolo dovrebbe essere convocato entro i primi di dicembre, comunque dopo il 30 novembre quando scade il periodo per completare la due diligence a firma di Invitalia e per quella data «si auspica il raggiungimento di un accordo» per l’ingresso della società del Mise nell’azionariato ora controllato dagli indiani immobili di Jindal.
I lavoratori a rischio sono 60mila i lavoratori a rischio, tra diretti e indiretti. A Taranto ci sono 2300 lavoratori in cassa integrazione e 1600 lavoratori in amministrazione straordinaria. «Questa manifestazione e questo sciopero è stato convocato proprio perché nessuno ci convoca», dice Francesca Re David, segretaria generale Fiom, ed «è impensabile che si parli di Pnrr e non si parli di Ilva e Piombino». La sindacalista non può «credere che nessuno in questo paese stia discutendo dei contenuti del piano siderurgico del paese». Sull’ ex Ilva, aggiunge, «entro il mese di novembre vogliamo conoscere il piano industriale», altrimenti «siamo pronti a una mobilitazione che non si fermi», perché «non è accettabile che si discuta con i lavoratori solo quando si arriva agli esuberi».
A rincarare la dose Roberto Benaglia, segretario generale Fim, che lamenta una mancata convocazione «da quando lo stato è entrato in Acciaierie d’Italia» e avverte: «Non provino a concludere piani industriali senza il coinvolgimento dei sindacati».