Nella fotografia, realizzata dal danese Christian Franzen y Nissen nel 1906 ca, l’artista con la moglie, che ha in mano la riproduzione del ritratto dell’Infanta Margarita di Velázquez
Joaquín Sorolla, “El Palleter”, 1884, collezione privata

La morte di Sorolla – proprio come avvenne nel 1923 quando sembrò, d’improvviso, che con la scomparsa dell’artista si seccassero gli allori verdissimi della pittura spagnola – unisce oggi i musei del paese da Valencia a Madrid, passando per Alicante e altri centri minori, nello sforzo collettivo di celebrarne degnamente il primo centenario (arrotondatosi il 27 febbraio appena trascorso).
Le città capitali la fanno ovviamente da padrone nel commemorare il genio di un creatore felice, fervido e internazionalmente riconosciuto, immagine di un’idea precisa di hispanidad che – col tempo e il passare delle stagioni – si è fatta sempre più commerciabile. Nato nella parrocchia de Santa Catalina, a pochi passi dal Mar Mediterraneo, Sorolla si sarebbe del resto trasferito, già dalla fine dell’Ottocento, nel quartiere attorno a Plaza del Progreso e infine, dopo un vagabondare bohémien da forastiero di fama, nell’enclave elegante del Castro, rendendosi mondanamente castigliano e portando l’aria salata, assolata delle spiagge meridionali ai piedi della Sierra Norte.
A questa cartografia encomiastica dei ricordi e della memoria non si sottrae neppure un altro luogo cardine per la carriera del pittore, e cioè l’Hispanic Society, sogno iberico incistato nella lingua settentrionale dell’isola di Manhattan, eretta dall’ombroso milionario Archer Huntington e ornata, per l’appunto, dal pennello dell’insigne valenciano, che proprio al di là dell’Oceano avrebbe vissuto i fasti più redditizi di un solido trionfo cosmopolita. In apertura d’anniversario sono infatti esposte a New York, al National Arts Club su Gramercy Park, le gouaches della monumentale serie sorolliana Visión de España, eseguita per la biblioteca di quella fondazione tra 1912 e 1919, dopo che – nel corso dell’ ultima estate – si era parlato di un invio di tesori huntingtoniani alla casa-museo dell’artista, altro miraggio identitario (dal patio andaluso al mobilio moresco, dalle Madonne gotiche alle tallas barocche), custode del legato familiare, fra carte d’atelier e documenti privati, opere dello studio, collezioni preziose.
Proprio in un luogo tanto fascinoso, si è dato il via ai festeggiamenti sin dal dicembre scorso, in breve anticipo sullo scoccare della ricorrenza. Così, nelle sale di mostra al primo piano della palazzina disegnata dal maestro assieme all’architetto Enrique Repullés y Vargas, si è scelto di ripercorrere (fino al 19 marzo) le sue origini, indagando cioè la nascita di un linguaggio cui sarebbe toccato il destino di farsi sigla inequivocabile.
Il museo non è, d’altra parte, rimasto solo in un simile scandaglio: in giro per la Spagna, sono aperte (o stanno per aprire) rassegne come Joaquín Sorolla y la pintura valenciana de su tiempo o Sorolla a Roma. L’artista i la pensió de la Diputació de Valencia (1884-1889), iniziative volte a ricostruire l’educazione di una personalità che, al contrario, nell’indiscutibile sprezzatura del tratto, nella grazia quasi innata di un’oeuvre immane sembra incontrare la cifra peculiare del proprio mestiere.
In questo senso la proposta madrilena è assai efficace e non solo perché copre in sintesi riuscita una cronologia eterogenea, stretta da spartiacque di decisiva portata simbolica (fra gli anni settanta e ottanta del XIX secolo); neppure perché può contare su eventi trascorsi, organizzati dalla medesima istituzione, che hanno in un certo senso preparato il terreno all’appuntamento odierno (si pensi, fra l’altro, alla retrospettiva del 2009, concentrata sull’esame analitico del modello velazqueño). Il segreto che attribuisce un senso alla mostra è la capacità d’interrogare il tratto stesso di Sorolla, l’elemento essenziale di una pratica a tal punto distintiva da diventare il prezioso passe-partout dell’artista nel mondo; la ‘trasparenza’, in poche parole, delle sue visioni piene d’aria e di vento, di salsedine e di riverberi abbaglianti.
Una banalità, si dirà, pasciuta essenzialmente d’impressionismo francofono; quello stesso impressionismo che dal viaggio di Manet al Prado e di corrida in corrida, lungo il già storicizzato 1865, aveva riscoperto il fascino severo della Spagna, ma soprattutto il sole impietoso del paese (il padre dell’Olympia decise di partire in pieno agosto…), motore di contrasti cruenti e di febbrili abbacinamenti.
Tuttavia, riflettendo su una letteratura densa di contributi parzialissimi ma animata pure da coerenti storicizzazioni, la mostra – per cura di Luis Alberto Pérez Velarde – contribuisce a precisare quanto un simile esito si fosse nutrito di una speculazione autoctona, orientata agli Old Masters canonici e alla scena contemporanea. La pennellata estenuante di Sorolla va cioè considerata come un ottenimento mediato anche attraverso il background iberico, in anticipo sulle residenze a Roma e a Parigi (a partire dal 1884). Certo, si può ritenere che – in anticipo su questi soggiorni – il pittore avesse conosciuto le nuove tendenze transpirenaiche grazie a un qualche aggiornamento bibliografico, condotto sulla stampa e la letteratura straniera, complice l’effervescente clima di Valencia, in cui era andato rivestendo un’importanza crescente nella seconda metà dell’Ottocento il magistero dell’Escuela de Bellas Artes. In questa prospettiva, però, il sontuoso, sensuale pittoricismo di Velázquez – studiato a Madrid nel 1882 e poi in altre gite successive verso la capitale – dovette giocare un ruolo preponderante, sciogliendo in bande umide il preziosismo arricciato, i ghirigori a chiocciola, il calligrafismo virtuoso appresi da un Francisco Domingo y Marqués o, l’occhio alla scena nazionale, da un Mariano Fortuny y Marsal.
Al Museo Sorolla questo passaggio è ben spiegato, in mostra dalla forza di una copia parziale da Las hilanderas del Prado, in catalogo attraverso uno scatto dell’artista e della moglie, realizzato dal danese Christian Franzen, con in mano la riproduzione fotografica di un ritratto dell’Infanta Margarita, anch’esso di Velázquez. Il volume aiuta poi a capire come i primi dipinti storici di Sorolla, le grandi macchine di uomini, armi e bandiere titolate Dos de mayo (1884) e El Palleter declarando la guerra a Napoleón (1884) debbano molto alla cultura della modernità, più di quanto appaia a un occhio abituato alla separazione rigida fra Salon e Refusés. È noto infatti che, in particolare per il primo, Sorolla scelse di condurre schizzi preparatori osservando personaggi e gruppi all’aria aperta, fra le adiacenze del suo atelier nella Calle Corona e il recinto della municipale Plaza de Toros: decisione che l’artista dovette modellare sul lavoro di un altro valenciano, più vecchio d’una generazione, Ignacio Pinazo Camarlench, il quale aveva applicato l’en plein air caratteristico dei suoi innumerevoli bozzetti tachigrafici alla messa a punto del capolavoro accademico Desembarco de Francisco I, concluso nel 1876.
Una simile riflessione, convincente nelle premesse e nei risultati, non mira certo a ridurre l’impatto della scena parigina sulla maturazione dello stile di Sorolla. Al contrario, senza che le sue conclusioni appaiano scioviniste, rende comprensibile come, proprio fra gli studi per il Dos de mayo, spicchi l’immagine d’un giovane martire (presente anche a Madrid), che nella sintesi perfetta di terre e di bianco, di neri e di grigi, fa intravvedere la sintonia, il senso di compimento, che, giunto nella Ville Lumière, poté forse provare Sorolla di fronte all’eleganza dei toreri esanimi di Manet.