Sottolineando il voyeurismo implicito alla fruizione della fotografia – una inclinazione che riconosceva esserle propria – Susan Sontag ha scritto: «La macchina fotografica ci rende tutti turisti nella realtà di qualcun altro». Ora, avvicinarsi ai suoi diari privati può apparire, come per un certo tipo di fotografia, un’esperienza inevitabilmente venata di scopofilia, complessa e non di rado disagevole, perché genera un certo grado di dissonanza cognitiva. Di solito, la tentazione di trascurare la persona in favore del suo pensiero si fa più forte quando l’investimento sul ragionare diventa strumento elettivo di azione e interazione con il mondo: vale per Susan Sontag, che era dotata di una coscienza analitica strabordante e iperattiva.

Il diario gioca dunque un ruolo fondamentalmente ambiguo: da una parte è una finestra che permette l’acquisizione di una vicinanza maggiore, sebbene sempre soggetta all’oscillazione fra asettica reverenza e stupore di fronte a un intelletto che si immaginerebbe, a torto, alieno da passioni fisiche. D’altro canto, il diario è spesso un mezzo per riagganciare la dimensione pubblica e dialettica di una mente al corpo, habitat di quanto si immagina più intimo e privato.

Appetiti insaziabili
Mente e corpo vengono in effetti chiamati in causa sin dal titolo del secondo volume che raccoglie i diari e i taccuini di Susan Sontag, La coscienza imbrigliata al corpo (traduzione di Paolo Dilonardo, Nottetempo, pp. 593, € 25,00) autrice che attraverso un’attività artistica e intellettuale poliedrica – è stata protagonista di un raffinato pensiero critico, romanziera, drammaturga, cineasta – ha indagato i rapporti tra forma e contenuto nell’arte e la sua dimensione socioculturale. Specialmente curiosa, analitica, vorace, Susan Sontag annota in innumerevoli liste i libri e i film letti e visti o da leggere e da vedere, elenchi eclettici e vitali («le cose non esisterebbero se non esprimessi il mio interesse per loro almeno annotandone i nomi») che spaziano dai classici ai contemporanei, dall’intrattenimento alle avanguardie sperimentali; opere studiate, acquisite e messe al servizio di brevi, acute riflessioni dedicate ai costrutti societari, alla politica, alle questioni di genere, al camp – categoria estetica analizzata in uno dei suoi saggi più noti, originariamente apparso sulla Partisan Review, e poi ripubblicato nella sua prima raccolta, Contro l’interpretazione, testo fondamentale nel canone della controcultura statunitense degli anni sessanta.

Grazie a questa preziosa edizione curata dal figlio David, che riguarda gli anni della maturità intellettuale e il cuore dell’impegno militante, si assiste da dietro le quinte all’ideazione e alla gestazione di alcune delle opere più note e influenti di Sontag; e, in maniera ancora più stimolante, all’evoluzione del pensiero dell’autrice attraverso gli innumerevoli appunti dedicati ai suoi studi, condotti con religioso rigore e con una dedizione totale, quasi fanatica – «Possiedo questa cosa – la mia mente. Si fa sempre più grande, il suo appetito insaziabile», scrive di sé. Parallelamente, ed è qui che si passa dalla dimensione pubblica dell’intellettuale al tempio privato della donna, le pagine riempite nei sedici anni coperti dalla raccolta strabordano di annotazioni dedicate al rapporto tormentato con i sentimenti, con il sesso e con il proprio corpo – involucro fragile e malfermo al quale l’autrice sembra avvicinarsi sempre con timore e frustrazione.

Nessuna traccia dei problemi di salute che tormentarono la scrittrice americana negli anni settanta (e le fornirono materiale per le riflessioni che sarebbero poi diventate il brillante saggio Malattia come metafora, pubblicato nel 1978); in compenso, il lavoro di autoanalisi, che abbraccia la sfera fisica-sensoriale e quella intellettuale-emotiva in un’interrogazione quasi sempre dolorosa, è incessante.
Ne risulta l’autoritratto di una donna profondamente meditativa e quindi necessariamente malinconica, scossa da violente incursioni nell’ambito più sensuale dell’esistenza ma al contempo irresistibilmente attratta dal desiderio di farsi mero intelletto, così da poter comprendere, addomesticare ed esorcizzare l’esperienza. Una compostezza e un distacco quasi irrealistici la prendono quando riferisce delle proprie nevrosi e inadeguatezze, e tuttavia le frasi lapidarie in cui rinchiude i suoi dolori tradiscono un tormento a malapena verbalizzabile.

La coscienza imbrigliata al corpo è, con una citazione di Hemingway riportata all’autrice stessa, il testamento di una «grazia sotto pressione», voce di un equilibrio precario e miracoloso nel fronteggiare continue tempeste emotive, intellettuali, fisiche. «Mi sento incapace di suscitare amore», scrive, «ma rispetto questo soldato che non si può amare – che lotta per sopravvivere, lotta per essere integro, giusto, onorevole. Rispetto me stessa. Non cadrò più ai piedi dei tiranni». Frammenti di pensieri e sensazioni raccolti lungo tutta una vita che, come nella Terra desolata di T.S. Eliot, sono serviti a puntellare le rovine di un io in stato di incessante (ma fruttuosa) inquietudine.

Davanti ai propri limiti
Lacerata tra la trascendenza del pensiero e l’immanenza della materia, la mente di Sontag pare combattere a ogni riga con le delusioni legate alla percezione del proprio corpo e alla difficoltà della propria condizione di donna bisessuale e madre single – anche se è proprio il rapporto con il figlio a dettarle le sole riflessioni serene della raccolta.

In alcuni punti sembra quasi che la pagina fatichi a contenere tutte le implicazioni delle parole: il linguaggio, sintetico ed essenziale (per l’autrice una notevole causa di cruccio), lascia intuire livelli ulteriori, appena suggeriti dalle chiose che si susseguono rapidissime. «La scrittura è una porta stretta. Certe fantasie, come i mobili più grandi, non passano», afferma nel 1964, descrivendo con icastica efficacia la stessa sensazione che prende il lettore nello sfogliare i suoi diari: l’ impressione che si faccia strada nelle pagine una mente esuberante, impossibile da addomesticare, dolorosamente conscia dei propri limiti.