Quanti festival del jazz italiani potrebbero offrire una programmazione del genere? Sons d’hiver – 33esima edizione – non è formalmente un festival di jazz, ma il jazz, e derivati e dintorni, è in gran parte il suo ambito. La rassegna (quest’anno 17 appuntamenti) è sostenuta dal (massiccio) dipartimento della Val-de-Marne – adiacente a Parigi a est e sud-est – e dalla regione dell’Ile-de-France; i concerti si tengono sia in aree della capitale al confine con la Val-de-Marne, sia soprattutto all’esterno, a volte appena fuori dal Périphérique, spesso in una banlieue più profonda; di anno in anno c’è una bella rotazione di località: Sons d’hiver non ha una propria location, vive programmaticamente del rapporto con sale, teatri, equipes locali.

TORNIAMO alla domanda iniziale, e per carità di patria non rispondiamo. Ma anche in Francia le rassegne con un cartellone così non è che siano proprio una folla. Prendiamo le quattro serate da martedì 23 gennaio a venerdì 26. Martedì si comincia con la prima di un trittico di esibizioni di Marc Ribot, titolo «Words & Music of Resistance», con Ribot affiancato da Shahzad Ismaily, batteria, seconda voce e altro. Ribot ironizza un po’ sul programma di sala, che dice che alla chitarra lui è spesso “rouge, très très rouge” e un po’ enfaticamente prospetta un Marc Ribot che suonerà come “Marx Ribot”. Poi torna su quello che ha scritto nelle note dell’album Songs of Resistance 1942-2018 (adesso comprese anche nel suo libro, tradotto in italiano col titolo Nelle mie corde, BigSur 2023, intelligente, godibile, da leggere assolutamente): quello che gli piace delle canzoni di resistenza è che sono spesso malinconiche, uno si sveglia e deve lasciare il suo amore per andare sulle montagne. Ribot canta Bella Ciao in inglese, e al posto dell’invasore che ti sei ritrovato alla mattina c’è più direttamente un “fascist”, e Ribot dice partisan, ma anche, in italiano, partigiano; Bella Ciao paga il prezzo della sua popolarità con un modo di cantarla e suonarla che è spesso un po’ meccanico ed enfatico, banalizzante, ma Ribot ce la restituisce spogliata della retorica, cruda, con un magro accompagnamento di chitarra acustica, dandoci il senso di un momento di scelte personali drammatiche: è una Bella Ciao che vale la serata.Trittico per Marc Ribot, il «golpe» di Carlos Maza, radicale Otomo Yoshihide

Come seconda parte c’è Memoria y futuro del pianista cileno Carlos Maza, per i cinquant’anni dal golpe: la musica non è un granché, ma quanti festival jazz italiani presenterebbero un set con immagini di manifestazioni di Unidad Popular, dell’attacco alla Moneda, e di arresti e repressione? Mercoledì, a Le Perreux-sur-Marne, Ribot è protagonista di tutta la serata. Prima col suo New Trio, con Hilliard Greene, contrabbasso, e Chad Taylor, batteria, aumentato a quartetto con James Brandon Lewis, sax tenore: impressiona come Ribot, che potrebbe adagiarsi a celebrare i suoi settant’anni (in maggio) e una grande carriera (Tom Waits, Elvis Costello, John Zorn, tanto per dire, oltre alle sue cose), preferisca invece l’inquietudine, una non convenzionalità che prima che una scelta formale sembra una esigenza etica – l’etica che si fa estetica – con all’opera un rigorismo di fondo dove c’è il suo ebraismo e il suo essere su posizioni di sinistra radicale, e c’è un nesso tra le due cose; musica piuttosto “nera”, fatta con tre afroamericani, con momenti estatici alla Albert Ayler e alla Sonny Sharrock, continui cambi di atmosfera e una grande coerenza d’insieme. Poi seconda parte con Ceramic Dog, con Ismaily a vari strumenti e Ches Smith che martella alla batteria: Ribot suona e canta con piglio rock, senza fronzoli e senza compiacimenti, un rock duro, un po’ allucinato e onirico, sincero fino in fondo, e sembra abbia un bisogno vitale di suonare e fatichi alla fine a fermarsi.

GIOVEDÌ, a Vincennes, la contrabbassista Joelle Leandre presenta il suo Atlantic Ave Septet, con musicisti di prim’ordine (Ingrid Laubrock, Steve Swell, Mat Maneri, Joe Morris fra gli altri): musica in gran parte scritta, dimensione cameristica, passaggi di sapore classico-contemporaneo ma fragranza improvvisativa e andamento aereo; “non mettetevi a piangere”, dice con la sua solita ironia Leandre, “ma suono poco nel mio paese”, la Francia, e ringrazia Sons d’hiver e il newyorkese Vision Festival (che lo scorso anno le ha assegnato il suo Lifetime Achievement Award) in collaborazione col quale l’Atlantic Septet è stato presentato.
Poi venerdì, ad Arcueil, il New Jazz Quintet del chitarrista giapponese Otomo Yoshihide, figura di culto della scena radicale, con rivisitazioni gustosamente in bilico fra espressione schizzato-lisergica e delicatezza melodica: apertura con Song for Che di Charlie Haden, bis con Lonely Woman di Ornette Coleman. Yoshihide sarà a Padova per il Centro d’Arte (10 febbraio) e a Forlì per Area Sismica (11).
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