Film che parlano della scomparsa del padre, di figli orfani e di padri latitanti, di fecondazione assistita, di gender e disgregazione della famiglia tradizionale, ma anche di adolescenze difficili e di esilio dal mondo degli adulti” Queste le parole della direttrice artistica Giovanna Taviani per introdurre l’undicesima edizione del SalinaDocFest percorsa da un filo rosso, PADRI E FIGLI. Verso terre fertili, che tesse come una tela le due sezioni del festival (Concorso e Sicilia.Doc). Oltre a questo costante collegamento fra i film, si è percepito un altro fortissimo legame fra le opere presentate, una riflessione potente e mai scontata sull’energia e la necessità del linguaggio e della parola come forza di propulsione per decifrare microcosmi privati e non. E’ il caso di Le canzoni di Giovanni Rosa, sulle contaminazioni popolari delle canzoni neo-melodiche, ma soprattutto di Terceiro Andar di Luciana Fina, una straordinaria riflessione sulle danze del linguaggio e della comunicazione, con protagoniste una madre e una figlia originarie della Guinea-Bissau sospese fra ricordo e tempo presente per un’opera così simile a Marguerite Duras e al suo cinema di “mise-en-trance”, d’ipnosi sensoriale, di parola come referente unica del linguaggio cinematografico. Anche il film vincitore, The Good Intentions di Beatrice Segolini e Maximilian Schlehuber, esplora le potenzialità del dialogo essendo incentrato sul ritorno a casa, dopo alcuni anni, della protagonista in cerca di un perché sugli eventi violenti che segnarono per sempre la sua famiglia. Impostato, nei primi minuti, come una palese messa in scena delle dinamiche e delle relazioni di casa Segolini, il film si libera presto della dichiarata teatralità per immergersi, in un continuo dialogo fra presente e vecchi home movies alla ricerca di risposte tra le immagini filmate dal padre, nella necessità di decriptare dolori e incognite del presente. Per la regista, pedinata dall’amorevole macchina da presa di Schlehuber, la fiducia nell’immagine è totale e la missione di rompere un silenzio raggelante si tramuta in confessione e sguardo sul reale soltanto davanti alla macchina da presa, vero motore psicologico e rivitalizzante del film, che dona il coraggio di chiedere e la forza di raccontare. Per tutti i membri della famiglia (madre, padre e due fratelli) la parola sembra essere l’unica strada verso la comprensione, mentre si percepisce chiaramente il bisogno, per tutti, di un “altro” presente (la macchina da presa) fino all’impossibile risoluzione dei cartelli finali. Tra i membri della giuria invece (Franco Piavoli, Enrico Magrelli, Cristiano Travaglioli e Dyana Gaye) la gradita sorpresa è stata la proiezione proprio del film della Gaye Un transport en commun, cortometraggio franco-senegalese del 2013, vero e proprio musical che racconta del viaggio in taxi di un gruppo di persone da Dakar a Saint-Louis e che nasce sotto il nome tutelare di Jacques Demy “Il primo Demy che ho visto è stato Peau d’âne, un classico per i bambini francesi, e mi piaceva moltissimo quella sua qualità di fiaba moderna. In seguito ho visto altri film e ho sempre ammirato quella libertà incredibile che aveva anche nel ripensare il modello americano, come nel caso di Les Demoiselles de Rochefort” ci ha raccontato la regista “In Francia, dopo Demy, più il nulla, a parte piccole eccezioni come Ducastel et Martineau e Christophe Honoré, anche se i loro film sono qualcosa di difficilmente paragonabile a un musical, sono molto meno tradizionali” Dyana all’inizio ha studiato musica e danza poi ha compreso che con il dispositivo cinematografico poteva condensare tutte le sue passioni “Il posto giusto per me insomma e con il musical ho cercato di fare una cosa completamente mia, anche perché in Senegal non sono mai esistiti” Le musiche, straordinariamente capaci di coniugare echi di Michel Legrand, il blues e le canzonette italiane degli anni ’60, sono state composte da Baptiste Bouquin mentre la regista si è occupata dei testi “Per molto tempo avevo la sceneggiatura ma non le canzoni, c’erano soltanto i titoli ma non riuscivo a proseguire. Ho capito dopo che scrivere le canzoni è davvero un mestiere. Per fortuna mi sono liberata e le ho pensate come dei dialoghi, come faceva Demy. Non sono delle poesie ma ho cercato di far sì che portassero avanti la narrazione. Durante questo viaggio avevo pensato ogni canzone come a un colore musicale specifico per ogni personaggio. C’è il ragazzo che deve trasferirsi in Italia e la sua canzone è un twist anni ’60, e ci sono brani nella lingua senegalese, il Wolof, un’idioma estremamente musicale” Ed è proprio su questo duetto linguistico che anche il film della Gaye cerca una luce “identitaria” nel rapporto fra le lingue, nel dialogo possibile, e impossibile, fra culture “Sono una parigina mai vissuta in Senegal, la terra di mio padre, dove nasce gran parte della mia identità e fare cinema era il modo migliore, o forse l’unico, per lavorare su questa “altra” me stessa proprio attraverso la parola”.