L’era digitale ha reso disponibili a studiosi e appassionati una quantità immensa di materiali inediti. Brani non pubblicati e versioni alternative scartate hanno permesso di ricostruire la genesi di capolavori e ampliarne la conoscenza portandoci dritti nell’officina creativa dei grandi maestri del jazz. Ma ancora più rilevante è la pubblicazione di materiale registrato dal vivo. Una serie di cd stanno facendo luce su capitoli poco conosciuti della storia del jazz. Le esibizioni del quintetto di Miles Davis e gli ultimi concerti di John Coltrane ci aiutano a penetrare molto meglio nella loro musica e nella loro estetica di qualsiasi incisione in studio. È il caso anche del ricchissimo cofanetto contenente i concerti che il sassofonista Sonny Rollins tenne nel club Village Gate nel giugno 1962 (Complete Live at the Village Gate 1962, un cofanetto in sei cd edito dalla Solar Records).

Appartiene ormai alla mitologia del jazz il riposo sabbatico che il musicista si impose tra il 1959 e il 1962. Per fermarsi a riflettere oltre che a ripulirsi dagli eccessi della vita notturna. La figura del sassofonista intento ad esercitarsi sul ponte di Williamsburg è una delle icone dell’immaginario jazzistico che ha alimentato la leggenda di Rollins.

Ritornato nelle scene con il notevole The Bridge il musicista forma un nuovo quartetto con il bassista Bob Cranshaw, che gli sarà fedele per anni, e due giovani leoni dell’avanguardia presi direttamente dal quartetto di Ornette Coleman: il trombettista Don Cherry e il batterista Billy Higgins. Rollins insomma si butta a capofitto nella nuova musica, la «New Thing», che ha terremotato il mondo del jazz dividendo aspramente critica e pubblico. Fino ad oggi questa incursione era conosciuta per i tre brani contenuti in Our Man in Jazz. Adesso possiamo finalmente ascoltare tutta la musica suonate nei diversi set tra le notti dal 27 al 30 Luglio.

Se la ritmica svolge il proprio ruolo pregevolmente, Higgins in particolare, e Cherry è imperturbabile con il suo stile già definito, un misto di dolcezza infantile e asprezza lunare, quello che impressiona è proprio lui, il Saxophone Colossus. Rollins sembra un gatto appena uscito dalla gabbia. Graffia, urla e si agita in ogni direzione. Esplora ogni recesso e ogni piega. Un improvvisatore bulimico. I brani arrivano a durare anche più di trenta minuti e lui li occupa per gran parte con il suo suono ruvido, aggressivo, con una esplosione di invenzioni e citazioni a getto continuo.

Tra classici del suo songbook, Oleo, Doxy e il celebre calypso St.Thomas, una manciata di standard (tra cui una incredibile versione di Tempus Fugit di Bud Powell) e tanta improvvisazione mano a mano che passano i set si lascia alle spalle strutture, certezze e compagni di viaggio. È lontano da tutto e da tutti cercando l’essenza della musica, come in una meditazione furibonda. In definitiva proiettato verso la dimensione che più lo rappresenta, ancora e per sempre come su quel ponte: la performance solitaria.