Più di 50 anni fa, nell’ottobre del 1972, usciva nelle sale La prima notte di quiete di Valerio Zurlini, storia di un amore impossibile tra un insegnante e la sua giovanissima allieva, in una Rimini invernale soffocata dalle nebbie. Alain Delon era già il «divo» per eccellenza e, ad affiancarlo, venne scelta la ballerina classica Sonia Petrovna. Ed è proprio grazie all’interpretazione di Vanina Abati che Petrovna si guadagnò, anche se per poco tempo, un posto d’onore all’interno della cinematografia italiana. Effettivamente, pensiamo a lei come a una meteora, a un’interprete impalpabile, eterea e austera; viso candido e ovale, di una bellezza pulita e impertinente; lunare all’occorrenza, traslata nell’incarnazione di un personaggio silenziosamente insofferente; dotato di quella «malinconia senza rimedio» che accende nel personaggio di Delon, Daniele Dominici, la ricerca disperata di un sentimento senza futuro. Oggi la ritroviamo ancora a teatro, impegnata più che mai nei suoi prossimi lavori – molti dei quali realizzati assieme al marito e mentore Laurent Petitgirard. Ma lasciamo che sia lei a raccontarci le tappe e i ricordi della sua carriera, partendo appunto dall’esperienza con Zurlini.

Stando a quanto dichiarato, fu Giancarlo Giannini a proporla per il ruolo di Vanina Abati.
È possibile, ma non lo posso confermare. Ricordo invece perfettamente Giancarlo, la sua presenza unica e commovente, e la sua grande gentilezza nei miei confronti.

Allora come andò, effettivamente?
Un giorno Olga Horstig, la mia agente dell’epoca, mi diede un copione: «Leggilo. Sei stata contattata per il ruolo di Vanina. È un film girato in francese con un regista italiano molto importante», disse. Accettai subito: la carica velenosa emanata dai personaggi e da Rimini mi tolse il fiato. Senza troppe domande, iniziai a lavorare sulla scena della casa al mare per il provino fissato con Zurlini, che non conoscevo e di cui non avevo visto nessuno dei suoi film. Ricordo che parlava lentamente, col suo cappotto color cammello, lo stesso che Delon indossò per tutta la lavorazione. Una volta scelta, non mi preoccupava di sapere che il mio partner sarebbe stato Delon. Lo incontrai la prima volta a casa sua, durante una cena con Valerio. La conversazione ruotava attorno al film. All’improvviso Alain si rivolse a me: «Conosci i miei film?», «No… Ah sì, Il tulipano nero». Piombò un grande silenzio seguito da una grossa risata. Il ghiaccio l’avevamo rotto.

Ricorda il primo giorno di riprese?
Fu una giornata molto strana. Valerio mi prese in disparte per provare, spiegandomi le sue correzioni a bassa voce e a denti stretti. Percepii la sua angoscia mista a una sorta di disperata violenza di fondo. Ho capito subito che dovevo accettare tutto per cercare di restituire il personaggio al meglio. Ero totalmente stregata da Vanina, è inquietante, commovente. Penso che Valerio abbia creato una grande figura mitica. Ricordo che tutta la troupe mi circondò di affetto, in pieno contrasto con la tensione che regnava durante le riprese.

Si riferisce alle famose incomprensioni tra Zurlini e Delon?
Non ho visto o sentito niente del genere durante le riprese. Nella mia bolla di concentrazione ero totalmente presa dal ruolo. Anche se circolavano voci secondo cui Valerio e Alain non andavano d’accordo, entrambi non lasciavano trapelare nulla in mia presenza.

L’anno dopo arrivò Luchino Visconti con «Ludwig», dove lei è Sophie di Baviera, sorella dell’imperatrice Sissi incarnata da Romy Schneider.
Una sola volta, e non la dimenticherò mai, mentre ero sul set assorta nei miei pensieri, Luchino mi venne vicino. Mi prese il viso tra le sue mani, con i suoi occhi riflessi nei miei, e sussurrava: «Cara Sonia…». Durante le lunghissime sedute di trucco, il viso di Romy era pallido, sembrava molto nervosa. Anche se mi rivolgeva un sorriso amichevole, qualcosa di triste nel suo sguardo mi avvertiva quanto fosse importante rispettare il suo privato. Sul set l’atmosfera era solenne. Il silenzio si estendeva nel respiro di tutti, come all’opera prima che si alzi il sipario. Prima di girare, adoravo sedermi, o meglio sdraiarmi, su una grande poltrona del set, dimenticando che il corsetto indossato mi bloccava il respiro. Vedevo Luchino dare alcune indicazione ai tecnici e Romy arrivava con i suoi lunghi capelli che ondeggiavano quasi fino al pavimento. Durante una ripresa, ricevevo uno schiaffo da Sissi. E ogni volta Romy mi chiedeva se non fosse troppo forte. Rispondevo di no.

Lei nasce come ballerina classica, studia all’Opéra di Parigi e lavora con Roland Petit. Non tutte le danzatrici riescono a passare alla recitazione, perlomeno in maniera così fluida.
L’arte della danza classica richiede rigore assoluto. Appena sono stata ammessa, a 6 anni e mezzo, alla scuola di danza dell’Opéra, la mia piccola vita di bambina arrabbiata e selvaggia era giunta al termine. Anche la disciplina può diventare un piacere. Sul palco del Palais Garnier lo shock è stato radicale, questa grande esperienza mi ha portata via dall’infanzia con grande gioia. «I bambini lo sanno», scriveva Saint-Exupéry ne Il piccolo principe. Un giorno, Vladimir Forgency venne a fare dei provini ai giovani ballerini per il suo corto Adolescence. Prese me. Avevo 13 anni. Il film vinse il premio San Giorgio alla Mostra del cinema di Venezia e venne candidato all’Oscar. Le cose sono accaduta in maniera naturale. Petit mi aveva appena presa per l’Éloge de la folie, ho conosciuto Olga Horstig e andavo più spesso al cinema. Sempre con Forgency ho girato Le feu sacré, che aprì il Festival di Cannes. Poi, il film di Valerio ha cambiato tutto. Voleva convincermi a rinunciare alla danza per la carriera d’attrice, «le due cose sono incompatibili», mi diceva. Ero ancora convinta di poterle seguire entrambe. Aveva ragione, anche se la danza è rimasta una risorsa importante nella mia carriera e non ho mai smesso di allenarmi.

Un altro ruolo interessante, da lei interpretato, è quello di Maria Gravina Cruyllas in «D’Annunzio» di Sergio Nasca.
Non sono mai stato interessata alla «carriera». Olga non aveva offerte per me. Valerio e Luchino non c’erano più. Ho dovuto ricominciare tutto da capo. Produttori e alcuni registi amici mi accolsero con gentilezza, ma avevo la sensazione di essere percepita come un soggetto non ben identificato. Poi il mio agente italiano mi ha offerto dei film che ho accettato. A conti fatti, mi è piaciuto interpretare Maria Gravina con la sorpresa di incontrare Laurent Terzieff! Sognavo però di interpretare Eleonora Duse.

Da Zurlini e Visconti a Umberto Lenzi e Raimondo Del Balzo. È un’attrice senza snobismi…
Mi è sempre piaciuto lavorare e non puoi avere la pretesa di essere chiamata solo da Visconti o Zurlini.

Non le manca il cinema?
Sì, mi manca molto. Ma la passione per la musica e il teatro mi ha salvata. Lungo gli anni ho incontrato di nuovo Laurent Petitgirard, che non vedevo dal mio primo lungometraggio. Insieme abbiamo realizzato Giovanna d’arco al rogo di Honegger e non ci siamo più lasciati. In quest’occasione ho avuto la fortuna di essere diretta dall’immenso Michael Lonsdale, che interpretava anche Fra’ Domenico. Abbiamo poi continuato con La voce umana di Cocteau e con La nuit de Marina Cvetaeva di Valeria Moretti. Ho imparato tanto da Michael, mi manca molto.

Quali sono i suoi prossimi progetti?
Donald Freed mi ha chiesto di andare in Inghilterra allo York Theatre per interpretare Hannah Arendt nella sua commedia The White Crow: Eichmann in Jerusalem, diretta da Damian Gruden. Ho poi chiesto a Laurent di comporre la musica per la mia prima regia, uno spettacolo di poesia, musica e danza su Il piccolo principe per l’Opéra di Avignone. E in questo momento sono alla prese con la preparazione di Guru, opera di Petitgirard, che verrà ripresa a febbraio 2024 a Nizza con la regia di Muriel Mayette-Holtz. Le sfide mi piacciono.