Con la lingua esopica delle allusioni più occulte – l’unica con cui si poteva provare a comunicare in Unione Sovietica – Boris Pasternak in un articolo del 1945 scrive che Chopin è realista perché è diverso dai rivali ma uguale alla natura. Le fantasie musicologiche gli servono, ovviamente, solo a parlare di sé e del romanzo in cui ha sintetizzato il raccordo finale della propria esperienza letteraria e umana, che stava segretamente cominciando a comporre: il realismo del Dottor Živago è un grido d’amore alla vita e alla natura, una sorta di poema lirico panteista.

Ora nel sessantennale della rocambolesca e ormai leggendaria prima pubblicazione mondiale in italiano, Feltrinelli fa uscire una nuova versione di Serena Prina (pp. 634, euro 19,00) che sostituisce quella storica di Pietro Zveteremich. Difficile immaginare peggior sorte per un traduttore che essere secondi ad affrontare un classico moderno: non si hanno più le giustificazioni dell’esordio, non si ha ancora la memoria di una tradizione in lingua italiana. E in effetti il risultato non è necessariamente migliorativo rispetto al testo in commercio fino a pochi mesi fa.

Indubbio, invece, il merito di proporre in veste più filologicamente attenta un libro la cui ricezione in Italia e nel m«ondo è stata falsata dall’esorbitante gravame di fattori extraletterari. Da un lato la pubblicazione oltrecortina, il premio Nobel apertamente antisovietico e il conseguente feroce ostracismo in patria, dall’altro il travolgente successo della riduzione cinematografica interpretata da Omar Sharif, al quale l’immaginario collettivo deve le inquadrature dell’eroe romantico, che cavalca su sterminate distese innevate alla ricerca della sua irraggiungibile Lara.

Pur non essendo il capolavoro di Pasternak, che si era già conquistato un posto tra i grandissimi del Novecento con le poesie e la prosa degli anni dieci e venti, Il dottor Živago è un libro di forte impatto e grande fascino. Tanto fautori che detrattori concordano nel leggervi la riproposizione di stilemi e strutture del romanzo ottocentesco: un ritorno all’ordine del grande sperimentatore con un che di epigonico. La prospettiva del grande affresco tolstoiano di vite individuali e destini collettivi presi nel vortice della storia appare però incrinata e straniata: il narratore onnisciente si lascia contaminare dai pensieri e dall’impronta stilistica dei personaggi, sul quadro storico prevalgono tonalità mitiche e movenze epiche, un recondito simbolismo pervade i dettagli apparentemente più banali. E soprattutto, Pasternak dimostra una indifferenza assoluta verso la verosimiglianza dell’intreccio e la coerenza psicologica dei personaggi.

Tre incontri e poi
Dottore e poeta, incarnazione moderna dell’uomo superfluo, inconciliabile per talento con le imposizioni della società, Jurij Živago incontra tre volte, per mirabolanti coincidenze e in momenti diversi della sua maturazione umana e intellettuale, la splendida, veemente, generosissima e autodistruttiva Lara, traviata già adolescente dal mefistofelico avvocato Komarovskij, che prima ancora che si aprisse la linea principale della trama ci era stato presentato come cattivo genio anche di Živago, del quale aveva indotto il padre al suicidio. Al quarto incontro, mentre intorno, dopo il disastro della prima guerra mondiale, deflagra la rivoluzione, Jurij e Lara diventano amanti, con buona pace dei rispettivi sposi, cui entrambi sono legati da un’intimità asessuata, pervasa da una intensa tenerezza fraterna.

La travolgente passione, che ha tinte di feroce erotismo magnificamente dissimulato nei particolari, è ambientata in una Siberia sconvolta dalla guerra civile, che geli sovrumani, impenetrabili foreste e la genuina virulenza di una sorta di stirpe autoctona consacrano a immagine delle natura primigenia. La felicità è ripetutamente interrotta dalle traversie e riconquistata, finché Komarovskij non interviene con l’inganno a rapire per sempre Lara. Satelliti e appendici, complementi e specchi dei protagonisti, s’intersecano alla linea principale decine di personaggi minori, coloriti ed espressivi quanto unidimensionali e evanescenti.

Oltre la percezione
Per Nabokov, siamo davanti a un romanzo banale e trito, goffo e melodrammatico. In realtà Pasternak continua semplicemente a dimostrare, come agli esordi avanguardistici, il più assoluto disprezzo per le convenzioni letterarie e per il lettore medio-statistico. L’unica struttura che gli interessa è quella fonica e ritmica, mentre i personaggi sono manichini per ipotesi, sonde dell’anima. Non è certo più la prosa di magnetica densità dell’Infanzia di Ljuvers o di Racconto, groviglio di metonimie e ragnatela di occulti nessi, allusioni, autocitazioni, ma l’impronta è esattamente la stessa. Dilatata su seicento pagine. A Pasternak interessano dinamiche profonde e alternative rispetto alla percezione immediata. Tutti gli elementi espressivi, emotivi e simbolici concorrono a una lettura che dev’essere sempre analitica e complessiva. In uno degli episodi più citati, Lara spara a Komarovskij durante una festa di Natale e ferisce di striscio il suo vicino al tavolo da gioco. Bene, tra le mille ipotesi che il lettore ideale può formulare, quella a tutti evidente è di certo la meno attendibile. Alle motivazioni iniziali del gesto, che erano vendetta, rivalsa e ricerca di un’indipendenza economica, si somma l’orgoglio offeso.

Pasternak ci ha già presentato Lara come tiratrice provetta e le ha fatto riconoscere nel vicino di Komarovskij un giudice aguzzino dei rivoluzionari. Nell’ordine, escludendo quasi a priori l’intento di uccidere, potremmo quindi mettere un tiro alla spalla del giudice o un tiro dimostrativo nel mezzo. L’unica vera vittima è la madre adottiva di Jurij, la cui morte per tisi, posposta di qualche settimana dall’affabulazione mistico-taumaturgica del protagonista, avviene a diversi isolati di distanza nell’esatto momento dello sparo.
È nell’ottica della simbolicità e delle criptostrutture che può essere letto nella sua pienezza Il dottor Živago, con Jurij proiettato dalla vocazione al sacrificio nella tradizione radicatamente russa dell’imitatio Christi, e Lara immagine latente della Russia stessa, irrefrenabile, ribelle, volitiva, inadeguata alle esigenze pratiche ma a tutto capace di adattarsi.

Soprattutto, entrambe le figure convergono nella definizione del luogo centrale di tutta l’arte di Pasternak, che muove dalla più folgorante delle sue raccolte poetiche, Mia sorella la vita, ed è già concentrato nell’assai atipico cognome del protagonista, che non suona z, come vogliono decenni di ricezione italiana, ma ž, cioè una j francese leggermente più dura ed evoca il lessema russo per «vita». Tutta l’energia del romanzo e tutta la passione per Lara e di Lara è compenetrazione con l’armonia della natura e dell’universo. Così Živago: «che voglia di dire grazie alla vita stessa, alla stessa esistenza, dirglielo così, direttamente! Ecco, questo è Lara. Con quelle cose non è possibile comunicare, e lei è la loro rappresentante, la loro espressione, il dono dell’udito e della parola concesso ai principi muti dell’esistenza».

La lingua innanzi tutto

A render vivo il dialogo del poeta con l’universo è la lingua del romanzo, essenziale quanto alta, fluida e musicale quanto spontanea, con una sintassi parlata ma ellittica, fino all’oscurità. Con grande nitidezza ne coglieva l’essenza Mauro Martini: «una grande impresa di falsificazione della prosa alla ricerca di un principio ritmico capace di parlare con il linguaggio della realtà». È con questa lingua che bisogna fare i conti per giudicare la nuova traduzione, che, paradossalmente, proprio da qui prende le mosse: si identifica la versione di Zveteremich come troppo libera, troppo uniformata stilisticamente verso l’alto a fronte della varietà di registri del testo di partenza.

Insomma, una tipica bella e infedele – e bella lo è abbastanza – cui andrebbe restituito lo spirito dell’originale. Il problema è che Serena Prina ne ricostruisce piuttosto la lettera, ricalca troppo da vicino la sintassi russa, aspira a un’aderenza lessicale quasi integrale, con l’effetto che la leggerezza e l’armoniosa sobrietà che animavano il testo di Pasternak cedono il posto a un organismo spesso farraginoso e statico.
Un esempio tra cento: «Come s’introduce la chiave nello sportello segreto di un piccolo forziere celato nell’armadio» (Zveteremich) diventa «Come si infila una chiave in uno sportellino segreto di un nascondiglio di ferro inserito in un armadio».

Ben migliori i risultati quando la traduttrice si sente autorizzata a maggiore libertà, nella resa dei dialoghi e delle poesie, ma anche in un gran numero di passi brillanti e disinvolti, che lasciano pensare a un diverso grado di limatura. E se la scrupolosità inseguita emenda numerosi errori d’interpretazione di Zveteremich, alcuni tra i più clamorosi sono ripetuti con imbarazzante specularità, e altri ne sono aggiunti. Nulla più della media statistica di un’ordinaria traduzione, ma un classico moderno a così alto rischio di fraintendimento necessitava di qualcosa di più.