E’ l’autunno del 1917 e in una latteria sperduta di una viuzza tortuosa nel centro di Parma, si riunisce un gruppo di allievi ufficiali di fanteria con la passione per le lettere. Lì avremmo potuto vedere il futuro autore degli Ossi di seppia affondare un cucchiaino in una morbida massa di panna montata e sollevare un «lungo sguardo azzurro interrogativo» sull’ultimo arrivato: Sergio Solmi. I due condividevano il destino di una gioventù segnata da un’esperienza del tempo divisa tra impotenza e solitudine, tra ricerca affannosa di autenticità e senso d’incertezza, dove la complicità con l’opera letteraria rappresentava un’occasione di partecipazione e di responsabilità.
Quel primo incontro segnerà l’inizio di un’amicizia duratura, testimoniata dalle 338 lettere raccolte ora nell’epistolario – Eugenio Montale, Sergio Solmi, Ciò che è nostro non ci sarà tolto mai Carteggio 1918-1980 – uscito per le cure di Francesca D’Alessandro, già autrice della monografia Lo stile europeo di Sergio Solmi. Tra critica e poesia (Vita e Pensiero), con un’appendice di Letizia Rossi (Quodlibet «Quaderni», pp. LXXVII + 706, euro 60,00). Il carteggio, che si estende prevalentemente nell’arco temporale delimitato dalle due guerre, è conservato presso la Fondazione Sapegno a Morgex e presso il Centro Manoscritti di Pavia. Questo lungo scambio di poesie e prose, consigli di lettura, opinioni e pettegolezzi è un sorprendente documento dell’avventura nel regno della letteratura, e del bisogno, in quegli anni pressante, di sentirsi vivere nella poesia in una dimensione autentica: il bisogno di una generazione estromessa dalla storia e, nonostante tutto, protesa verso la storia.
Mentre Montale lavorava alle sue poesie, la «dolorosa ricerca della vita interiore» di Solmi passava per la redazione di «Primo Tempo», storica rivista letteraria fondata con Mario Gromo, Emanuele M. Sacerdote e Giacomo Debenedetti. È in queste pagine che verranno presentate per la prima volta le liriche di Montale, ma Solmi fa di più. Poiché è convinto che l’amico si sia già «trovato compiutamente» come poeta, anche grazie alla sua «meravigliosa tecnica del verso», non esiterà a intercedere con Piero Gobetti per la pubblicazione del suo primo libro.
In una lettera del 1925, Solmi comunica a un impaziente Montale le sue impressioni su Ossi di seppia che definisce una plaquette «perfettamente salda e compatta, e di tono così intenso». «Bisogna sorprendere il segreto, il tono schiettamente originale della tua poesia, che ha radici profondamente nascoste in un complesso terreno spirituale, ma dal quale, come ogni poesia, non si sa come faccia a nascere». In queste parole c’è già tutto Montale, ma c’è anche Solmi e l’universo di valori in cui crede come critico.
La lettera anticipa la recensione che pubblicherà su «Il Quindicinale» nel febbraio 1926, ora raccolta con il titolo Montale 1925 in Scrittori negli anni (Adelphi). Conoscendo il libro da una posizione ravvicinatissima, di testimone e di amico, coglie perfettamente come «questi “ossi” intendono essere le inutili macerie abbandonate lungo le spiagge aride, le morte memorie di ciò ch’è stato solo una desolata velleità di esistere».
A questo punto, Solmi ha 26 anni e Montale ne ha 29, per emozionarsi basta pensare che siamo davanti a un giovane che recensisce un altro giovane al suo esordio poetico, con un saggio che rappresenta il proprio esordio critico. E basta notare come il contesto storico – quell’«atmosfera delusa e morta» – entri mediato in brevi, ma profonde riflessioni per accorgersi che solo tra le pieghe dell’arte e della scrittura poteva insinuarsi una forma di resistenza verso la Storia. «La stretta fascista qui è diventata forte, e chi non è dei loro non può vivere». Il gusto per la letteratura e l’antifascismo procedevano necessariamente paralleli, trovando nella vicinanza e nella complicità tra scrittori e lettori il sottile e segreto varco attraverso cui la critica poteva farsi strada. Una vicinanza che era il risultato dell’importanza che una singola opera poteva assumere per quelle giovinezze che sentivano tutto il peso di un mondo impartecipabile.
«Non vorrei dirti delle parole grosse, ma tu sei forse l’unico di noi che sia riuscito ad esistere in un modo non contestabile», per Solmi (e non solo per lui) la poesia di Montale rappresentava questo: partecipabilità, ma anche unicità e irripetibilità della propria esperienza, desiderio e speranza di una generazione sola, bramosa d’azione e unita, che non ha resistito al richiamo del famoso «tu» montaliano, perché chiunque fosse quell’interlocutore, di certo simboleggiava tutti loro.
«A poche cose ha creduto la nostra giovinezza: ma, fra quelle poche, certamente alla poesia», memorabile l’incipit dello studio del 1957 La poesia di Montale, con cui il critico si accingeva a delineare un panorama appassionato, rinnovando quel valore di testimonianza che ha avuto sempre rilievo nella ricerca di Solmi e che trovava in Montale il suo punto più alto. Loro che avevano letto Bergson e James, prima ancora di Croce, loro che si scambiavano saggi, libri e traduzioni di Svevo, Joyce e Alain, sono stati l’uno per l’altro un punto di confronto imprescindibile, nel segno di una reciprocità che non conosceva né competizione né invidia.
Spesso, infatti, i ruoli s’invertivano. Se Solmi seguiva passo passo la genesi degli Ossi prima e delle Occasioni poi, Montale accompagnava l’amico nel suo apprendistato letterario, grazie a lui e al suo saggio magistrale Il pensiero di Alain conosceva il filosofo francese e non mancava mai di esprimere senza riserve la sua stima, pure a spese di colleghi altrettanto autorevoli: «tutti noi siamo forse troppo severi con Giac. – (Giacomo Debenedetti) – perché sappiamo che c’è un altro critico che vale di più: Sergio Solmi!».
Questa stessa stima è da leggere in filigrana nelle poesie di Solmi, di cui Montale sollecita costantemente l’invio, alimentando il senso di necessità che li lega: «quando mi trovo teco mi pare d’essere migliore; cosa assai spiegabile, che se la bellezza genera bellezza, anche le virtù dello spirito sono presto ritrovate per chi sa ammirarle in altrui». L’uno attribuiva all’altro le virtù di cui si sentiva più sprovvisto. Montale guardava a se stesso come a «un ingenuo complicato», «un timido e un sentimentale», «uno scettico pieno di vuoto», che voleva soprattutto realizzarsi pienamente come uomo, prima ancora che come poeta, e il suo caro Sergio rappresentava l’«incitamento a perseverare nel faticoso cammino, esempio ammirevole di compiutezza spirituale e di religiosa dignità di uomo-artista».
Solmi, dal canto suo, ha passato la vita cercando l’equilibrio impossibile tra la quotidianità fatta di incombenze famigliari e lavorative (come avvocato e consulente della Banca Commerciale Italiana) e le proprie ambizioni letterarie: «io lotto tutti i giorni contro i meccanismi infernali del tempo, per salvarmi dal diventare anch’io un meccanismo, e purtroppo arrugginito e cigolante». Così si sfoga, mentre gli confessa: «credo che tu veramente sia dei pochissimi che hanno saputo dire se stessi, e hanno saputo trovare la propria radice».
La verità è che leggendo l’epistolario è impossibile dimenticare che a scriversi sono un futuro premio Nobel per la letteratura e uno fra i più eclettici saggisti nel nostro Novecento – leopardista, contemporaneista, francesista, ma anche critico d’arte, memorialista e cultore di science-fiction, oltre che poeta – perché attraverso il loro racconto ricostruiamo l’ambiente culturale che gli si articolava intorno, vediamo allungarsi sempre di più l’elenco di critici, poeti e romanzieri a cui erano legati per collaborazioni, amicizie e ostilità, e perché possiamo seguire lo sviluppo della loro poetica, del loro gusto e del loro stile.
Ma non meno appassionante è assistere alla crescita di due ragazzi che leggono l’uno nelle parole dell’altro gli uomini che volevano diventare e che non smettono mai di ripetersi: «non ho mai dubitato del tuo ricordo», «in tutto questo tempo non ti ho mai dimenticato», «ti ricordo sempre». Non potendo vedersi quanto avrebbero voluto, affidavano alla memoria la loro amicizia e il senso di una singolarità riconoscibile fra mille: era la memoria, soprattutto, oltre alla pagina, il luogo in cui riuscivano a ritrovarsi.