Nelle trattative dei vertici europei l’Olanda si è ultimamente distinta per una strenua opposizione a ogni forma di solidarietà: no eurobond, niente soldi regalati alle «cicale» mediterranee.

Non ha aiutato a rinfrancare gli umori il fatto che sia un paradiso fiscale: un territorio con una tassazione favorevole ai capitali di provenienza straniera, di entità molto inferiore alla norma (la definizione è controversa).

Le negoziazioni europee stanno partorendo niente più che schemi di indebitamento per il sostegno dei paesi più in crisi, in primis Italia, Spagna e Grecia.

A questo punto è ricomparsa magicamente in pompa magna la prospettiva della patrimoniale: invece di chiedere soldi alle istituzioni sovranazionali particolarmente odiate come il Mes o altri dai contorni ancora fumosi e incerti, le prendiamo direttamente dalla ricchezza degli italiani.

Tale proposta ricompare ciclicamente torna, tanto presso la «sinistra» di governo che la vede come uno strumento di natura finanziaria per far quadrare i conti, tanto presso le sinistre radicali, che invece, la considerano strumento di giustizia sociale per diminuire la diseguaglianza e lo strapotere dei ricchi.

Purtroppo è complesso imporre un prelievo sulla ricchezza in un contesto in cui i capitali girano liberamente: nella Ue la proibizione di limiti alla loro circolazione non solo è oramai vigente da molti anni, dalla direttiva 88/361/CEE del 1988, ma è stata «costituzionalizzata» all’articolo 63 del Trattato di Lisbona attuale.

La Ue è un ambito ristretto in cui sono state cristallizzate politiche in voga un po’ dappertutto dagli anni Ottanta e Novanta. Creando in tal modo un contesto geoeconomico che è strutturalmente favorevole alla mobilità del capitale e della ricchezza. Come spiegano in modo particolareggiato gli economisti del meritorio blog ConiarerivoltaLa giusta patrimoniale e i suoi nemici» di aprile 2020) di chiara impostazione socialista, tale architettura giuridica fa sì che andare a scovare le ricchezze dell’1% più ricco sia particolarmente arduo, anche senza scomodare i numerosi scandali fiscali recenti.

Anche se non esiste una definizione unanimamente accettata di «paradiso fiscale», secondo i criteri più rigorosi degli analisti, diversi paesi europei vi rientrano.

Secondo lo studio di tre economisti (Torslov, Wiel, Zucman) l’Italia perde il 15% delle tasse sui profitti d’impresa a causa di tali giurisdizioni ; l’84% di tale ammanco è dovuto a paradisi Ue: Belgio, Cipro, Irlanda, Lussemburgo (il peggiore di tutti), Malta e… Olanda.

Se una tassazione più dura verso grandi patrimoni è universalmente considerata un mezzo possibile per raggiungere una maggiore equità sociale, occorre fare attenzione ai dettagli delle proposte, perché il rischio di «lavorare per il re di Prussia» è alto.

La mancanza di solidarietà in ambito Ue (di cui non ci si dovrebbe stupire troppo, dato che essa è interamente basata sui principi di concorrenza e libero mercato) fa sì che la catastrofe economica che si prefigura in seguito al confinamento per covid-19 venga affrontata a suon di prestiti più o meno «mutualizzati» (ma i dettagli sono tutti da vedere) sul versante della raccolta dei fondi (chiedendoli come solito ai «generosi» mercati finanziari ) e che ricadrà in un modo o nell’altro sugli Stati beneficiari, per pagare i quali essi dovranno agire sugli unici canali disponibili: la cessione delle risorse e la tassazione più accentuata.

Il caso della Grecia resta lì a testimoniarlo, assieme a tutto il tristissimo corteo di paesi che, come racconta Eric Toussaint nell’importante testo Il sistema, hanno in passato perso la sovranità finanziaria e fiscale a favore di un commissariamento a favore dei creditori; una liberazione dai quali, salvo rivolta armata, è molto difficoltosa.