Passato nella sezione Orizzonti della settantaseiesima edizione della mostra veneziana, Sole l’esordio di Carlo Sironi, dopo i cortometraggi Cargo (2012) e Valparaiso (2016) ha confermato la sua felice vena autoriale con una elegia di borgata di una poeticità scarna e dolente, in cui il tema scivoloso del contrabbando di neonati abbraccia storie di giovani ai margini, una madre-bambina disperata e incapace di cura per gli altri, un borgataro taciturno che con quattromila euro crede di aver dato una svolta alla vita. Un cantico minimale della suburra, che forse nel finale vede uno spiraglio di luce. Ne pariamo col regista.

Racconti storie difficili, temi socialmente delicati: hai, un’idea ancora romantica del cinema? di strumento nobile nel dire qualcosa di importante, o di emozionante?
Assolutamente si, ho un’idea trasversalmente romantica del fare cinema, che si traduce anche in una percezione poetica dei personaggi e degli ambienti che descrivo. Nell’affrontare questo film, in particolare, ero assolutamente conscio della forte carica poetica insita in questi due personaggi e nella storia, quindi ho cercato di evitare di sovrapporre troppo «linguaggio», di cercare sottolineature drammatiche o lacrimevoli. Non cercavo un film che «vuole» avere una carica sociale. Credo che i film abbiano delle loro caratteristiche naturali, e mi pare che spingendo troppo sull’acceleratore, forzando le cose, si finisca con lo snaturarli.

Per questi tuoi marginali, però, la possibilità della redenzione slitta continuamente in avanti, sfugge sino a diventare impossibile….
Quando si ha a che fare con sentimenti che sono strettamente legati a questa sorta di resurrezione personale già il solo riuscire a mettere in moto questo processo di riscatto è già la resurrezione. La sua attuazione pratica in questo primo momento ancora non conta. Per quanto riguarda Sole, poi, non trovo il finale del tutto amaro, nel loro abbraccio finale vedo uno spiraglio di speranza. E soprattutto nel pianto in chiusura, prima vera esplosione di sentimento in un film tutto «implosivo», in cui sono trattenuti tutti i sentimenti, compresa l’attrazione tra loro due, una liberazione finale, anche a livello emotivo, come un’uscita dalla claustrofobia precedente.

Amaro però è il fatto che lei infine ceda al ricatto, assecondi la logica prevaricatoria del denaro…
Era molto importante per me prendere una posizione, ma al contempo mi premeva dire che nessuno può sapere, in realtà, vista la delicatezza e la complessità del tema, se poi questo neonato sarebbe stato meglio con la madre naturale da sola, con la madre e questo finto padre o invece con questi genitori fittizi, che seppure attuano una strategia che al di là dell’essere illegale, è soprattutto coercitiva, violenta nei confronti della madre naturale, potrebbero essere riscattati dall’enorme desiderio di genitorialità che li anima. Era una domanda che volevo lasciare aperta, pur sapendo che sia io che gli spettatori avremmo tifato per la coppia dei due giovani.

I movimenti di macchina quasi eliminati, un montaggio che non «forza» i materiali, quasi da cinema d’antan… cifra del tuo cinema o scelta funzionale a questo solo film?
No, riguarda solamente Sole. Ho cercato di capire quale fosse la «temperatura emotiva» di questi personaggi e il linguaggio ha cercato di seguire quella, allo stesso tempo, in tutte le piccole sottolineature, cambi di passo o linguaggio, ho cercato di rifarmi a certi dispositivi del cinema classico che secondo me sono straordinari, ma che vengono usati sempre meno. La frontalità, il raccordo sull’asse in avanti, la centralità dei soggetti che si ritrovano tutti nel cinema anni ’50, che è quello che ho guardato di più preparando Sole. Un cinema che aveva ormai scoperto tutte le possibilità di linguaggio, ma in cui ancora non erano state stravolte. In particolare, poi, ho rivisto molto cinema giapponese di quegli anni, Mikio Naruse, Ichikawa, film anche molto diversi, come The Makioka Sisters (Kon Ichikawa, 1983), When a Woman Ascends The Stairs (Mikio Naruse, 1960), che hanno quella malinconica tenerezza che mi sembrava un tono interessante nel creare un contrasto con la durezza della sceneggiatura e del mondo che racconto.

Una soundtrack che pur mantenendo profili melodici e armonici molto musicali e ariosi, che evocano una certa dolcezza, punta molto sulla «sporcatura» timbrica, quasi a bilanciare la dolcezza delle melodie

Per la parte di musiche originali, firmate da Teoniki Rozynek, abbiamo lavorato molto sul registrare suoni analogici, come tibetan bowls, altre percussioni e strumenti, in maniera molto pulita, lavorandole molto dopo. Quell’effetto di «pulsanza» e sinteticità di cui parli dipende da questo. Poi ci sono alcuni brani non originali più melodici, che dal punto di vista drammaturgico avevano funzione più emotiva. Quello dell’inizio è un pezzo di Martin Hannet, il produttore dei Joy Division, prodotto Factory e composto con i The Durutti Column, un pezzo che amo da sempre. Mentre il brano sul finale, la scena dello sfasciacarrozze, è di un gruppo post-rock texano, i This Will Destroy You, che ha una carica emotiva molto forte.

Questo è anche un film «di facce». Sandra Drzymalska sembra una bambina, ma incapace di sorridere, e Claudio Segaluscio coi grandi occhi chiari e la piega amara delle labbra, leggermente all’in giù è un Ermanno perfetto…com’è andata?

Prima ho voluto cercare Lena, da lei dipendeva gran parte della temperatura emotiva del film, quindi andava trovata prima. Abbiamo fatto provini in sei paesi dell’Est Europa e quando ho incontrato Sandra ho capito che il suo modo di interpretare il personaggio era molto più interessante di quello che avevo in testa io. Lei ha una naturale leggerezza, un tocco infantile, che trovavo straordinari per questa immagine di bambina che deve diventare madre, ma che sembra non rendersene nemmeno conto. Amore a prima vista.
Lei ha imparato l’italiano apposta per il film, io la dirigevo in inglese e lei sapeva del copione solo le sue battute. Claudio, invece era esattamente come me lo ero immaginato, in più lo volevo attore non professionista perché avrebbe fatto un viaggio un po’ più inconscio, inaspettato rispetto a questo percorso di paternità. Siccome Claudio non parla l’inglese non potevano comunicare, un fatto che mi piaceva tantissimo, perché non potendo confrontarsi, scambiarsi suggerimenti, davano delle prestazioni «pure», incontaminate.