L’agenzia americana Ap un paio di giorni fa scriveva che i membri di Parents Circle, un’associazione buonista e figlia dei falliti Accordi di Oslo, che si appella alla coesistenza tra israeliani e palestinesi senza però andare al cuore dei nodi politici, sono rimasti sbalorditi vedendo diverse foto del loro gruppo prese in internet e usate, senza autorizzazione, dall’Amministrazione Trump per illustrare la conferenza economica “Pace per la prosperità” (25-26 giugno) per i territori palestinesi occupati che si apre oggi in Bahrain. Un esempio piccolo eppure significativo che ben illustra l’inconsistenza del forum a Manama, boicottato e condannato dai palestinesi sin dal giorno in cui Jared Kushner, inviato Usa in Medio oriente, nonché genero del presidente, ne cominciò a parlare.

A tutti è ben visibile il nocciolo della questione: milioni di palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana da decenni e nei campi profughi sparsi per la regione. Non l’economia ma i diritti negati. Invece Trump e il suo entourage di guerrafondai che cooperano con la destra ultranazionalista israeliana, sono convinti che spargendo dollari per il Medio oriente, i palestinesi non reclameranno più libertà, piena autodeterminazione nella loro terra e il diritto al ritorno per i profughi. Sono sorretti dall’idea che i palestinesi, come gli altri “arabi”, abbiano appetito solo per i soldi ed in cambio di essi siano pronti a gettare nella pattumiera i loro diritti. Colonialismo e orientalismo allo stato puro.

Nel weekend la Casa Bianca ha diffuso i punti alla base della conferenza in Bahrain alla quale prenderanno parte rappresentanti internazionali, leader e dirigenti delle petromonarchie del Golfo – sauditi in testa – e di paesi arabi che, come nel caso della Giordania, a Manama non vorrebbero esserci ma non hanno potuto dire di no all’alleato statunitense. I palestinesi – ad eccezione di qualche “imprenditore privato” con amicizie nelle colonie israeliane – per una volta sono uniti, dal partito Fatah del presidente Abu Mazen al movimento islamista Hamas fino alla sinistra guidata dal Fronte popolare. «Abbiamo già ascoltato queste bugie e in ogni caso la situazione economica non dovrebbe essere discussa prima di quella politica e finché non ci sarà una soluzione politica, non affronteremo alcun problema economico», ha ripetuto in questi giorni Abu Mazen. «La questione palestinese è quella di un popolo che vuole la libertà dall’occupazione israeliana», dice Ismail Radwan di Hamas. In Cisgiordania e Gaza sono stati proclamati tre giorni di proteste contro “Pace per la Prosperità”. Oltre ai palestinesi a Manama non ci saranno anche membri del governo Netanyahu, non invitati. Il motivo ufficiale del mancato invito al premier israeliano e ai suoi ministri è che il forum rappresenta la parte economica dell’“Accordo del secolo”, presunto “piano di pace” Usa per il Medio oriente. Quella politica sarà resa pubblica solo dopo le legislative israeliane del 17 settembre.

La verità è che nei disegni dell’Amministrazione Usa, la presenza di israeliani e soprattutto dei palestinesi, è superflua. Il punto centrale ma nascosto dell’incontro è cosa faranno i paesi arabi per liquidare la questione palestinese e normalizzare le relazioni con Israele. La conferenza si rivolge soprattutto a loro. Non è un mistero che il piano Usa non sarebbe mai andato avanti se non avesse incontrato l’approvazione di Arabia saudita, Bahrain ed Emirati. Ossia dei paesi che, assieme all’Egitto, formano la cosiddetta “Nato araba” che ha messo ai margini la soluzione della questione palestinese sulla base del diritto internazionale e privilegia l’alleanza con Israele per combattere il nemico comune, l’Iran.

Alla conferenza economica sarà illustrato un piano che prevede la creazione di un fondo d’investimento globale da 50 miliardi di dollari gestito da una banca multinazionale di sviluppo. 27,5 miliardi di dollari andranno a progetti in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, 22 al Libano e la Giordania, che ospitano milioni di profughi palestinesi, e all’Egitto, paese che ospita poche migliaia di rifugiati ma che, nel quadro dell’“Accordo del secolo”, dovrà essere ricompensato per la possibile cessione di porzioni della penisola del Sinai alla Striscia di Gaza. I progetti da sviluppare in dieci anni sono 179 e riguardano l’assistenza sanitaria, l’istruzione, l’energia elettrica, l’acqua potabile, l’alta tecnologia, il turismo, l’agricoltura e includono anche un collegamento via terra tra Cisgiordania e Gaza e prestiti agevolati alle imprese per creare un milione di posti di lavoro. Decine di miliardi che dovrebbero mettere sul tavolo le monarchie arabe del Golfo ed investitori privati. Altri punti saranno chiariti alla conferenza da Kushner che con enfasi descrive il suo piano come «lo sforzo internazionale più concreto» messo in campo sino ad oggi.

È tutto molto vago in realtà. Quasi nessuno crede che i paesi arabi più ricchi siano davvero disposti a investire somme tanto elevate. «Se avessero voluto migliorare le condizioni di vita di milioni di palestinesi lo avrebbero già fatto, non avevano bisogno di aspettare Kushner e la sua conferenza» spiega al manifesto l’analista Mouin Rabbani, «l’ottimismo di Kushner è irrazionale. Non credo che i paesi arabi, persino quelli come l’Arabia saudita vicini a Israele, siano disposti a dirsi apertamente a favore di Gerusalemme come capitale solo di Israele e del controllo definitivo israeliano di terre palestinesi o arabe. Certo a questi paesi interessa poco del destino dei palestinesi ma preferiscono restare defilati sulla questione per concentrarsi dietro le quinte sull’obiettivo che considerano centrale, l’Iran». Dal Sudan al Kuwait commentatori e gente comune bollano la proposta Usa come «una colossale perdita di tempo destinata al fallimento». E se il regime egiziano fa quello che dice Trump, i partiti di sinistra egiziani condannano il forum in Bahrain, un tentativo, dicono, di «consacrare e legittimare» l’occupazione israeliana delle terre arabe.