Sokurov nel cuore trafitto dell’Europa
Al cinema Da domani nelle sale «Francofonia» del regista russo presentato alla Mostra di Venezia
Al cinema Da domani nelle sale «Francofonia» del regista russo presentato alla Mostra di Venezia
Carico di interrogativi espressi, troppi per dar loro un’immediata risposta, Francofonia di Alexandr Sokurov, contiene risposte impossibili da offrire in cambio della sontuosa messa in scena. La sua voce fuori campo accompagna lo spettatore in modo che non si smarrisca tra i cambi scena, l’irrompere improvviso di personaggi, i volti dei ritratti sicuramente già visti ma dove, quali date e quali eventi. La voce solitaria dell’uomo. Due sono le muse a cui si rivolge prima di iniziare il poema, Tolstoj e Cechov. Perché dormite? è la prima domanda e anche a questo non avrà risposta. Occorre il loro sostegno per dare equilibrio al vortice indistinto nel quale ci troviamo, sulla zattera della Medusa che vedremo nel finale. Unico punto fisso sembra essere l’opera d’arte da salvaguardare come testimonianza di identità, o come simbolo di potere tale da poter essere spazzata via. Non ce ne parla direttamente il film di Sokurov, ma si sentono in sottofondo i boati delle distruzioni recenti dei «patrimoni dell’umanità».
Già cominciare a cogliere il suo sguardo non è cosa semplice e univoca: sarà il caso di distinguere tra punto di vista rinascimentale e bizantino, quello dei paesi ortodossi, il punto di vista da cui ci si pone di fronte alle icone, mai frontalmente, con le giuste vie di fuga diagonali (lo ha fatto intravedere nei suoi film Tarkovskij e certo Sokurov non indica la prospettiva.
Intravediamo sempre al fondo dello schermo l’Europa sintetizzata, ridisegnata, moltiplicata nei personaggi ritratti al Louvre – monarchi e mercanti, dame e indietro nel tempo la Nike di Samotracia (possiamo ricavare risposte ai nostri interrogativi dai classici latini e greci? gli abbiamo chiesto: «temo che non riuscirebbero a capire la situazione in cui ci troviamo» ci ha risposto). Titolo originale del film è Le Louvre sous l’Occupation e una buona parte del film, per seguirne una sola traiettoria è la storia complessa della salvaguardia delle opere da parte di Jacques Jaujard il funzionario di alto livello, conservatore al momento dell’occupazione nazista della Francia e direttore del Museo del Louvre di Parigi dal 1940, e del nazista plenipotenziario Conte Wolff-Metternich, responsabile dei beni artistici nella Francia occupata durante la Seconda Guerra Mondiale. Pur su fronti diversi il loro è un obiettivo comune, la salvaguardia delle opere che assume via via il significato della messa a riparo di un’intera civiltà, quando è approvato il trasferimento del patrimonio al sicuro nei castelli intorno a Parigi.
Mentre il film definisce i suoi perimetri, incalza di domande a sottolineare come sia fulminea la corsa del tempo, dei secoli e assurde le vicende che li compongono, onde della storia «senza ragione né pietà». Ma in questa chiave resta sempre il mistero dell’arte, cosa porta gli uomini a esprimersi con tanta magnificenza, sia la paura del potere, o l’affermazione del potere. O la futilità del potere. Lo stesso Louvre incarna vari misteri a partire dalla sua origine, fortificazione scelta per fondare Parigi, oggi diventato lo stesso museo una città nella città, fatta di labirinti e sotterranei. La scelta di riprendere i quadri che ritraggono il museo con i quadri alle pareti è una presa di distanza – oltre che una vertigine – un essenziale gioco di specchi così come la scelta di avvicinarsi ai quadri «anomali», quasi dimenticati rispetto a quelli diventati celebrità, attrazione per turisti .
Il museo come luogo del potere è espresso dalla figura di un Napoleone padrone di casa, guida delle sue effigi, ora a cavallo di un asino (il nobile animale cavalcato anche da Gesù nel giorno delle palme) ora in occasione dell’incoronazione a imperatore, o a indicare i tesori trasportati a Parigi come bottino di guerra nelle campagne d’Egitto (che, ricordiamolo avevano al seguito artisti come Vivant Denon a descrivere i territori attraversati). Duetta con una Marianna (Johanna Korthals Altes) altro fantasma che si aggira nei saloni. Infine musei, cattedrali e castelli non subiranno bombardamenti per disposizione del Reich: beninteso da questo accordo è escluso il patrimonio artistico all’est, non considerato ufficialmente degno di conservazione. Non una semplice notazione, ma una deflagrazione da un punto di vista politico e artistico: irrompono nel film le documentazioni d’epoca da Vichy ai bombardamenti all’Hermitage, un altro luogo dell’anima del regista di Arca russa, che non ha nessuna intenzione di specializzarsi nella serie dei musei (La Bbc lo fa già benissimo, dice).
Vediamo non più il luogo protetto perfino dai nemici, ma diventa pulsante la percezione del milione di morti di Leningrado, scene di ghiaccio che rimarranno anch’esse nella storia d’Europa e del cinema. Tanto era un film danzante Arca russa nei fasti dell’Hermitage, quanto diventa sanguinante Francofonia, premonitore di quanto sarebbe successo nei mesi a venire: Sokurov nei giorni della Mostra ci parlava della necessità di non mettere da parte la Russia, di non isolare Putin e allora sembrava che sarebbe rimasto inascoltato. Più facile sembrava restare sul piano del discorso puramente artistico. Arte o vita umana, cosa preservare? («c’è gente che ha sacrificato la sua vita per l’arte, ognuno fa le sue scelte», diceva il regista e tutta la sua vita ne è stata la dimostrazione).
Come una visita al museo mette in moto associazioni e riferimenti in Francofonia dobbiamo essere vigili all’intreccio di generi, scene in costume, immagini al computer, film d’arte in un continuo flusso ininterrotto. Dai reperti agli attori in scena, elaborati tanto da perdere ogni parvenza di ricostruzione d’epoca, attraversata dalla polvere del tempo, come la Marianna che sussurra con il fiato che le resta: liberté egalité fraternité. Se ha ancora un senso.
Resistenza, occupazione, Europa unita: tutto passa nel vortice della storia, in mezzo a flutti tempestosi come quelli su cui naviga il cargo carico di container di opere d’arte ormai perse nelle acque. Lo grida infine ad «Aleksandr» l’amico comandante Dirk collegato fortunosamente via Skype, fin dalla prima scena, immagini che giungono a tratti nello studio del regista, unico punto fermo del film, si direbbe il cuore stesso dell’opera, dove prende forma ogni sua creazione, la stanza dove si trovano i suoi libri, i quadri, i suoi appunti e scritti, punto di partenza e arrivo di tutto il film. Le risposte semplici sono finite, restano domande complesse, ma i politici non sono in grado di darle, non c’è stato nessun rinnovamento, non è cambiato niente. Neanche gli scrittori sono in grado di cambiare qualcosa». In una scena del film di fronte ai quadri rinascimentali il regista si concentra sul mistero dello sguardo di quei personaggi: «La pittura ci permette di capire chi siamo noi europei, dobbiamo guardare il viso dell’altro per cogliere cosa ci differenzia, cogliere gli elementi della cultura dell’altro. È un pericolo mischiare le culture. Proteggete la vostra cultura europea».
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