L’ipnotica Ariadne auf Naxos, libretto di Hugo von Hofmannsthal (ripartito in un «Prologo» e un’«Opera») e musica di Richard Strauss, è in scena al Teatro alla Scala di Milano fino al 22 giugno. I 19 anni trascorsi dal suo ultimo allestimento inedito (direzione di Giuseppe Sinopoli, regia di Luca Ronconi), dichiarano l’appartenenza di quest’opera a un repertorio di nicchia, nonostante la sua relativa brevità e la brillantezza di tante sue parti.
Il fatto è che Hofmannstahl, che nel 1911 aveva composto l’«Opera» come divertissement conclusivo della commedia Le Bourgeois gentilhomme di Molière al posto del tradizionale «Balletto delle nazioni», nel 1916 la sgancia dalla commedia, surrogando quest’ultima con l’attuale «Prologo» e finendo per costruire una macchina metateatrale raffinatissima in cui il capriccio di un aristocratico viennese costringe un giovane compositore idealista a mandare in scena la sua serissima opera «Arianna a Nasso» con inserti della farsa «L’infedele Zerbinetta e i suoi quattro amanti», improvvisati da un gruppo di artisti della Commedia dell’Arte.

STRAUSS da par suo, reduce da Elektra (1909) e Der Rosenkavalier (1911), realizza una partitura «archeologica» che offre una miscela finissima delle atmosfere e degli stili della tragedia lirica e dell’opera buffa del Settecento, centrati attorno alle due primedonne, la tragedienne Ariadne (soprano lirico-drammatico) e la soubrette Zerbinetta (soprano di coloratura), tra le quali fa la spola il Compositore (mezzosoprano), senza sottrarsi a una inevitabile rilettura della tradizione wagneriana, veicolata dal cupio dissolvi finale di Ariadne.

Sul podio Franz Welser-Möst, direttore musicale della Cleveland Orchestra e fine interprete straussiano, avvistato l’ultima volta alla Scala nel 2016 per Le nozze di Figaro di Mozart, fa mostra della consueta intensità controllata nell’addentrarsi in una partitura che, come sempre in Strauss, si configura come un mosaico cangiante che ibrida pathos e ironia, sogno e disincanto, tradizione e sperimentalismo, trasfigurando incessantemente ciascuno degli elementi nel suo opposto.

VICEVERSA la regia di Frederic Wake-Walker, che con Welser-Möst ha già lavorato proprio alle Nozze di Figaro, non convince: il principio di «mettere alla prova i limiti di cos’è l’opera e per chi è fatta», che regola il Mahogany Opera Group di cui Wake-Walker è fondatore e che ha funzionato nelle Nozze e nella Finta giardiniera del 2018, qui mostra la corda, non aiutato dalle scene (Jamie Vartan) e dalle luci (Marco Filibeck) in chiave pop anni ’80, con video (Sylwester Łuczak, Ula Milanowska) che strizzano l’occhio alle psichedelie di 2001 Odissea nello spazio. La mancanza di un’idea di fondo è schiacciante.

Superbe le interpreti Krassimira Stoyanova, un’Ariadne statuaria e intensissima, e Sabine Devieilhe, una Zerbinetta stellare nelle fioriture, capaci di polarizzare con adesione impeccabile la lettura di Welser-Möst. Generose e convincenti anche le prove di Daniela Sindram (Compositore), Michael König (Tenore/Bacchus) e Markus Werba (Maestro di musica).