Siamo sempre in Arizona. Ma quel treno delle 5.10 da Tucson, che forse riporterà l’amore al protagonista operaio, viaggia in senso opposto a quel treno delle 3.10 per Yuma su cui nel 1957 Van Heflin saliva per compiere il suo indefettibile dovere di fuorilegge redento. Le Stelle del West indicavano la direzione, il Westward-ho, la spinta verso Occidente. Qui si viaggia in senso inverso, tornando indietro: da San Francisco alle gru dei giacimenti di petrolio e di gas dell’Arizona. Come dire, ma già lo sapevamo dalla fine dell’800, che la frontiera era finita.

Ma è proprio quando finisce la storia delle frontiera e non c’è più un West in cui espandersi e crescere che alle stelle offuscate del West suppliscono, con la crescita del cinema sull’estremo orlo occidentale del paese, le stelle del Western, e dell’immaginazione. La geniale ambiguità di una frase banale come Western Stars, che le include entrambe, consiste nell’annunciare fin dall’inizio che la storia e l’immaginario, le stelle in cielo e le stelle al cinema, non si possono separare, e nemmeno distinguere.

BRUCE SPRINGSTEEN c’era già arrivato una volta, in quella casa borghese sulle colline di Hollywood, ed era scappato con la pistola in mano, come si usava nel West/ern. Mi ha sempre fatto effetto accorgermi che, per esempio, On the Road ha la dinamica di un topo in gabbia: la gabbia è grande ma si può solo andare avanti e indietro, da New York alla California e ritorno, e ritorno, e ritorno, fino a sfondare il confine e scappare rovinosamente in Messico. Springsteen l’aveva già fatto una volta, in Across the Border, ma il confine che sfondava era quello simbolico della morte. Adesso forse ci risiamo. 

«Mi sono svegliato stamattina»… che incipit! Mi sono svegliato stamattina e il blues mi girava intorno al letto, stamattina mi son svegliato e ho trovato l’invasore, stamattina mi sono svegliato e Satana mi bussava alla porta… in Western Stars c’è due volte, a partire dalla canzone che dà il titolo al tutto, Western Stars, appunto. Mi sono svegliato stamattina ed ero contento che i miei stivali li avevo ai piedi e non erano abbandonati nell’erba di Forest Lawn, il cimitero sugli Hollywood Hill dove un tempo Bruce aveva la sua «bourgeois house». È un attacco ambiguo.

Da una parte, come è noto, non è una colpa essere contenti di essere ancora vivi; ma la vita di questa ex star di serie B o C la cui unica gloria è di essere stato sparato da John Wayne prima di ridursi a fare commercial per le carte di credito, di queste attricette di B-movies, di questi stuntmen fatti a pezzi che non risultano nemmeno nei titoli di coda, non è la stessa di Born to Run o di Badlands. Dopo tutto, se si è svegliato con gli stivali addosso è perché è così, probabilmente strafatto tra pillole blu e gin, che si era addormentato.

«VAI A WEST, ragazzo, e cresci col paese», dicevano. A West si andava da giovani, in quanto giovani, quando il paese era giovane, e il giovane Springsteen c’è andato, su strade contorte come serpi nel deserto dello Utah, sui rettilinei senza fine del Nebraska. Mezzo secolo fa siamo andati in tanti, davvero o in sogno, a San Francisco coi fiori nei capelli in cerca della summer of love. In questo disco, da San Francisco scappa via il narratore di Tucson Train , «stanco della droga e della pioggia». A forza di crescere, i giovani, e i paesi, invecchiano – e lo diceva nel Giorno della Locusta quel Nathanael Weinstein che aveva scelto proprio West come ironico nome d’arte, che i vecchi a Ovest ci vanno per morire.

E ALLORA ci ricordiamo che per un vero cowboy, cinematografico o meno, è un punto d’onore morire con gli stivali ai piedi. Di un altro cimitero cantava Frankie Laine sui titoli di testa della Sfida all’OK Corral: «Boot Hill, Boot Hill,so cold, so still…», la fredda, silenziosa «collina degli stivali» dove i morti sono tutti caduti in battaglia. Forse è lì che questo eroe vorrebbe portare i suoi stivali, non nel borghese camposanto di Forest Lawn. Ma per quegli ex giovani che, come il quasi settantenne Springsteen, sentono tutti i loro anni ma non sono ancora pronti a morire, non resta che girarsi sui tacchi e ripartire volgendo le spalle al tramonto.

Come sempre, Bruce Springsteen parla da dove si trova. Western Stars segue lo stato d’animo crepuscolare ma non sconfitto delle serate autobiografiche di Broadway. Il western e il West si prestano perfettamente a questo stato d’animo, un intreccio di epica e solitudine. Il West era grande, e quindi epico; ma nella vastità si accentuava quella «lontananza» che secondo Don DeLillo è un’insostituibile parola italiana (anche il narratore di Underworld parla da Phoenix, anche lui in Arizona). Per questo, gli imponenti arrangiamenti orchestrali di Western Star funzionano paradossalmente un po’ come il minimalismo di The Ghost of Tom Joad, altro disco del West: evocano i suoni delle solenni colonne sonore di Dmitri Tiomkin ma mettono la sordina all’epica e lasciano solo lo spazio che circonda la lontananza, il cavaliere della valle solitaria, il «lonesome cowboy», la «lonesome valley» (di Larry McMurtry, molto evocato in questo disco), e Bruce Springsteen da solo sul palco disadorno del teatro di Broadway…

TUTTAVIA questo non è un disco triste. La lontananza, la solitudine, non sono necessariamente sconfitta. L’autostoppista di Hitch Hikin viaggia solo; lo prende su un automobilista che ha con sé la compagna incinta, o un camionista che gli mostra la foto della fidanzata – lui sale, viaggia, ringrazia, scende e continua senza nessuno. Tutti hanno rapporti, lui sta da sé. Forse il solo West possibile è quello che ci portiamo dentro. È nei desideri e nei ricordi del vecchio attore che «le stelle del West brillano di nuovo». Continuiamo a cercare il «sunshine», magari con un po’ di intenerimenti sentimentali. I miracoli se ne vanno («there goes my miracle, she’s walking away») ma esistono e noi li abbiamo visti.

Di tutti i sogni che non si avverano, il West e il Western sono stati i più grandi. Forse sono diventati menzogne e maledizioni come su quel fiume di tanti anni fa, ma la loro verità siamo noi che li abbiamo sognati e non abbiamo ancora smesso. «Meglio avere amato», conclude, evocando la frase di Tennyson diventata quasi un proverbio – «meglio avere amato e perduto che non avere amato mai». Le vere sconfitte sono le battaglie non combattute. E magari l’amore e il miracolo potrebbero anche tornare, su quel treno di Tucson delle cinque e un quarto.