C’era una volta una Lady della Birmania, da noi amata e osannata al pari di Giovanna d’Arco. Adesso c’è ancora e non c’è più. C’è ancora per una estesa maggioranza di birmani. Non c’è più per il Resto del Mondo, o quasi. Il Gambia, per dire, ha accusato la Birmania/Myanmar di genocidio davanti al Tribunale Internazionale dell’Aja che il 23 gennaio scorso ha stabilito che il governo dovrà prendere provvedimenti per proteggere i rohingya.

STARE MENO SUL GENERICO vorrebbe dire approfondire almeno due temi: primo, il possente nazionalismo birmano buddhista, identità predatrice ostile alle minoranze, che il colonialismo inglese, inventando uno stato di Birmania, ha rattrappito in una frattura profonda tra una Birmania vera e propria e aree escluse/di frontiera. Secondo, la brutalità del sovrastante apparato militare birmano, Tatmadaw, che dall’indipendenza del 1948 ad oggi ha praticato la guerra civile perenne e non metaforica con le minoranze nazionali. Un tempo ancora e sempre scandito dall’alternarsi di tregua e conflitto armato.

Scantonando per il momento da questa impegnativa impresa, è giusto chiedersi se Aung San Suu Kyi sia effettivamente l’unica Signora della Birmania. È una domanda che si è posta anche Jennifer Rigby, giornalista britannica, che ha messo insieme dodici interviste ad «altre signore» (The Other Ladies of Myanmar, Iseas, 2018) in un libro che non sa di antropologia, di gender studies o di teoria politica, ma di preziosa indagine su soggettività sporgenti in un paese fluttuante e sorprendente.

Avrebbe trovato ampia testimonianza anche indagando il passato non remoto, per esempio: Ludu Daw Amar, una vita da dissidente radicale, scrittrice e giornalista di rango, morta nel 2008 o Ma Ma Lay, scomparsa nel 1982, splendore della letteratura birmana moderna, il cui capolavoro, La sposa birmana (disponibile in italiano per le edizioni ObarraO) si potrebbe definire un caposaldo del postcolonialismo ben prima che questa più che ambigua etichetta venisse inventata.
Nella sua esplorazione Jennifer Rigby si confronta con la rifugiata, la pop star, la contadina, la donna d’affari, la militante rohingya, l’attivista «etnica», la politica, l’ambientalista e via dicendo.

Vite diverse, molto, ma tutte con il corpo e la mente al lavoro. Ketu Mala, per esempio, è una monaca buddhista e sarà meglio precisare subito il significato di questa parola nel contesto birmano, dal momento che le «monache» sono 60/70mila, i monaci più di mezzo milione. Da questi numeri poco mistici si capisce da che parte si convoglia la forza anche simbolica del buddhismo theravada birmano.

ISTITUITO DI MALAVOGLIA dal Gautama Buddha l’ordine monastico femminile si è estinto nell’IX secolo e rifondato recentemente solo in Sri Lanka. Sono interposte persone le thilashin, né laiche né monache, prive dell’automatico prestigio della shanga maschile.

ED È QUI CHE KETU MALA trova pane per i suoi denti, il buddhismo reale, non quello sognante degli occidentali tutto armonia, uguaglianza, tolleranza. Da una eternità in Birmania i maschi hanno una cosa che le donne non hanno, il hpoun, un potere carismatico a cui corrisponde cosmologicamente Il Re dell’Universo-Chakravartin. «Il problema vero, dice Ketu Mala, è che il patriarcato da noi ha radici profonde». Lo combatte con la sua fondazione socio educativa scuola Dhamma poi Uppalava Institute e col vestirsi di scuro, come la corteccia degli alberi di foresta, divergente dal delizioso rosa delle monache.

Per le thilashin nessun sostegno statale contrariamente all’incorporazione amministrativa quasi totale dei monasteri maschili e poi offese e minacce dalle frange misogine e xenofobe del buddhismo birmano, tra cui spicca il monaco U Wirathu, propugnatore di diritti incivili, appena riemerso dalla latitanza.

AH MOON, POP STAR non più solo locale, di nazionalità Kachin, figlia di un pastore battista, già leader di una band femminile, sa bene cosa vuol dire vestire e svestire il corpo. A prescindere dall’etichetta femminista, è più interessante farlo il femminismo, che dirlo.

COLORI SGARGIANTI, musiche, danze, canti, cibi, sguardi, ritmi dispari, travestimenti dei corpi, transessualità, preghiere, bambini, sciamani, eros, invocazioni, tracollo della mascolinità, profumi, acconciature, decine di migliaia di persone per sei giorni a festeggiare e glorificare se stessi e i nat, anzi nat kadaw, spose dei nat. In un piccolo villaggio a fine agosto.

I nat: avanzi di angeli, spiriti malbenigni, semidei regrediti, santi portatili, umani sovrumani, numi tutelari? Mitologia senza frontiere, nat buddhisti, induisti, musulmani. Improvvisamente poi la parola fa la sua miracolosa apparizione, anche se è sicuro che non sia adeguata perché dedotta da un vocabolario globalizzato e dedito all’appropriazione e alla normazione: queer, comodo rimpiazzo di fluttuante, ondulante, increspato, duttile e così via.

Ecco, a Taung Byone, paesetto che sta al centro, vedi cos’è la Birmania, paese dal doppio, triplo fondo. Ma se glielo dici pubblicamente ti trovi nell’ultima cella del famigerato carcere di Insein a Yangon, perché il paese è anche tutto il contrario di queer, parola tuttofare. Quest’anno ci ha pensato l’Oscuro, il Corona V., ad annullare il pellegrinaggio, perché di questo rituale si tratta.

NON È ESATTAMENTE CIÒ che vuole dimostrare Lynette J. Chua, studiosa di Singapore, con il suo The Politics of Love in Myanmar. Lgbt Mobilization and Human Rights as a Way of Life (Stanford University Press, 2019), ma la constatazione è lampante. Impiega un intero capitolo per spiegare che l’universale definizione Lgbt non è così universale come pare a noi. Che in loco altre parole vanno impiegate per rappresentare esperienze sociali più plastiche e sfuggenti al nostro sguardo accalappiatore e classificatore. Il culto dei nat non è un residuato folklorico, è il contraltare festoso e dolente alla maledizione del tuo karma, se sei buddhista, che ti fa rinascere queer perché nelle vite passate hai trasgredito le regole sessuali, alla condanna del tuo peccato «contro natura», se sei cristiano o musulmano, e non hai rispettato l’ordine eterosessuale. L’ecumenico abbraccio religioso può stritolarti.

Per questo l’autrice ripercorre passo dopo passo il costituirsi di un movimento di liberazione dalla discriminazione legale e sociale, seguendo protagonisti e protagoniste nella loro trasformazione da penombre impaurite a gente che si rialza, non piange, fronteggia il presente più che il futuro.

Anche se i diritti umani sono un’idea occidentale, non c’è ragione per non adottarli se ci aiutano a migliorare le nostre vite. Dopo tutto anche il nostro esercito fa uso di granate e artiglieria inventata dall’Occidente invece delle armi tradizionali come la lancia e il pugnale, dice Tin Hla, attivista Lgbt sulla cui storia è incentrato il libro.