Drew Daniel, accademico, non-musicista, protagonista di una delle band elettroniche più rilevanti degli ultimi venticinque anni, i Matmos, intellettuale a tutto tondo, ha vissuto questi tempi difficili in Maryland: «Qui ho trascorso la quarentena con il mio partner, Martin Schmidt (con Drew Daniel, oltre che nella vita, anche nei Matmos, ndr). La nostra routine è trascorsa bene perché ho un lavoro sicuro, sono docente di letteratura inglese alla John Hopkins University e ora sono in anno sabbatico; non sto dunque attraversando i tremendi incubi di natura economica che molti invece stanno vivendo. Sto ultimando la revisione di un libro accademico sul suicidio nell’antica letteratura inglese che mi ha impegnato negli ultimi sei anni. Mi è capitato di uscire di casa più a lungo del solito solo per le manifestazioni contro la polizia per il caso di George Floyd e di troppi altri afroamericani (a Baltimora nel 2015 destò forti proteste l’assassinio del venticinquenne Freddie Gray, ndr). Questo è stato un momento di ispirazione e di rottura positiva in un periodo che altrimenti ho vissuto in ermetico isolamento».

DANIEL DAL 2003 porta avanti il progetto solista Soft Pink Truth, nato per rispondere ad una sfida lanciata dal produttore inglese Matthew Herbert, che lo stuzzicò dicendogli di non ritenerlo in grado di produrre un buon album house: da allora, seguendo la bussola della propria instancabile curiosità, è giunto sino al nuovo, luminoso e mistico, Shall We Go On Sinning So That Grace May Increase?, ispirato ad una frase di San Paolo. «Ho sentimenti ambivalenti a riguardo della religione. Sono ateo e, come omosessuale cresciuto nel Sud evangelico e conservatore, ho sempre visto il cristianesimo come un nemico. Insegnando letteratura rinascimentale, devo sempre confrontarmi con le idee religiose e la frase del titolo del disco rappresenta una sfida diretta alle nostre norme e consuetudini. L’Apostolo Paolo si chiedeva perché continuare a fare quello che è sempre stato fatto, che cosa può succedere se si cambia e perché non farlo proprio ora. Sono domande potenti ed attuali, religiose nel loro intento originario, ma possono diventare etiche, politiche, economiche. Per rispondere a questi stimoli, dopo l’elezione di Trump, che mi ha riempito di rabbia, disgusto, tristezza e paura, ho cercato di cambiare il mio stile. Avevo bisogno di musica che consolasse ma che pure mi portasse altrove con la testa.»

COME già Brian Eno, Daniel non ha remore a definirsi eventualmente non musicista: «Non sono abituato a pensare alla mia identità in questo ambito ed è solo quando ne parlo con qualcuno che ci rifletto ed allora mi sento un po’ goffo perché di solito associo l’essere un musicista con un insieme di pratiche e di abilità formali che non ho. Creo cose, assemblo suoni e se questo sia davvero musica oppure ne sia un surrogato bizzarro e approssimato per difetto sta a chi ascolta deciderlo.» Come dimostrano la sua discografia solista (è appena uscito un altro nuovo lavoro come Soft Pink Truth, Am I Free To Go? tutto di cover crust punk, reperibile sul bandcamp dell’artista) e quella coi Matmos, ci troviamo di fronte ad una mente spalancata: «Ultimamente sono molto preso da Morton Feldman e dalla techno nera di artisti come Robert Hood , ma sento davvero cose di ogni tipo: ci sono periodi in cui sono immerso nell’ hip hop, altri in cui ho bisogno di death metal, notti in cui mi perdo nel noise estremo, giorni in cui sto steso sul pavimento ad ascoltare canzoni tristi».

E AGGIUNGE: «La musica per me è un modo di settare il tempo; proprio come i monaci avevano le candele come unità di misura, così io vivo un disco: come fosse un modo per scandire la mia vita quotidiana . Non è sempre un ascolto veramente concentrato, ma ci sono profondità differenti da raggiungere nei diversi momenti della giornata; qualche volta fai surf e qualche volta ti tuffi dentro. Nessuno degli approcci è necessariamente quello migliore: è solo un modo di fare un esercizio di convivenza con le forme.»