Ci sono gruppi e musicisti di mezzo seoclo fa, nella storia della musica popular più colta e disponibile al confronto con le avanguardie coeve, che restano incistati nel cuore e nella mente degli appassionati a prescindere dallo scadenzario dei decenni. Sono punti fermi, l’anagrafe conta ben poco, e da loro neppure si pretende, come per certi patetici personaggi del rock mainstream, che appaiano «per sempre giovani». Piuttosto, li ritrovate citati in film, conferenze, in libri che ricostruiscono lo Zeitgeist, lo «spirito di un’epoca» irripetibile. Ad esempio i Soft Machine. Nome ricavato da un romanzo estremo di William Burroughs, creatura sonora bizzarra e particolarissima assemblatasi nella Londra ancora scalpitante e Swingin’, di casa in quell’Ufo Club tempio dell’underground dove anche i Pink Floyd delle origini muovevano i primi passi psichedelici, sotto la guida dello sciamano riluttante Syd Barrett.«Høvikodden 1971» vive di improvvisazioni furiose e celestiali

GRUPPI che sfidano l’oblio e sono attualissimi oggi com’erano avanti di decenni cinquant’anni fa: i Softs li trovate ad esempio citati in romanzi splendidi di Jonathan Coe e Michael Zadoorian. Ed esiste ancora oggi una band Soft Machine: neppure uno dei membri originali dal lontano 1966, spirito e inclinazioni musicali quasi intatte. Succede però, a volte, che ripescaggi fortuiti in archivi dimenticati ci facciano assistere a vere e propri resurrezioni di un’incarnazione particolarmente felice di un band. Se provate a chiedere a un buon conoscitore di musica quale sarebbe l’incarnazione ideale della «Macchina morbida» che vorrebbe rivedere su un palco, le risposte sarebbero quasi unanimi: i Soft Machine del 1970- 71. Un formidabile, impattante grumo di creatività che convogliava le energie fresche e geniali di Hugh Hopper, basso elettrico, Mike Ratledge, tastiere, Elton Dean, sax contralto e saxello, Robert Wyatt, batterista e vocalist.
La formazione che incise Third e Four, album che ancora oggi sono un tesoro di idee e soluzioni sonore, in quella terra di nessuno ancora oggi da finire di dissodare che ingloba rock progressivo e psichedelia, jazz d’avanguardia e soluzioni riprese dalle note contemporanee classiche. La macchina del tempo ora l’abbiamo, per cogliere i Soft Machine in pieno fulgore, in due concerti successivi e integrali ripresi il 27 e 28 febbraio del 1971. Un superbo cofanetto da quattro cd pubblicato dalla benemerita Cuneiform, Høvikodden 1971.

LA LOCATION è lo Heni-Onstad Art Center, vicino a Oslo, un museo d’arte contemporanea. Era successo che Mark Boyle e compagna, Joan Hills, la Boyle Family, pregiato nome d’arte nel campo della produzione di film e immagini psichedeliche come Sensual Laboratory avevano ricontattato i Soft Machine per un’ultima occasione di lavoro assieme, dopo esser stati la «parte visuale» della loro musica nel ’67 e nel ’68, in Europa e nel tour americano in cui la Macchina condivideva il palco con Jimi Hendrix.
In quelle due sere al Museo norvegese c’era Hand Voigt, fan della band, che notò qualcuno nei concerti alle prese con microfoni e registratori professionali nelle due serate: era Meny Bloch, suo collega nel Norske Teatret, tecnico del suono tedesco. Le registrazioni finirono archiviate nella Biblioteca Nazionale della Norvegia, e Voigt, ricordando la successione degli eventi, un giorno è riuscito a localizzare, mezzo secolo dopo, il posto dove giacevano le bobine. Che, ulteriormente rimasterizzate e ripulite, oggi sono il cuore scinitllante e freschissimo di questo cofanetto.
Ci troverete, oltre alla polpa principale di Third e Fourth, l’inedita All White, Neo – Caliban Grides, poi finita sul magnifico album solo di Elton Dean, ci troverete improvvisazioni furiose e celestiali, i momenti in cui Robert Wyatt improvvisa con la voce. A volte il futuro è chiuso negli archivi.