Oggi si parla molto di società-mondo, di interazione tra culture, popoli, lingue e costumi. Ma contemporaneamente anche di chiusure, intolleranze, nostalgie nazionaliste, “pulizie etniche”. E un ritorno a valori tradizionali, considerati un riparo a una percezione diffusa di insicurezza. In breve tempo, abbiamo visto nascere nell’ambito della sinistra l’associazione “Patria e costituzione”, e nel lato destro del parlamento il gruppo “Vita, Famiglia e Libertà”. Colpisce, in entrambe le iniziative, il ricorso a un espediente che si potrebbe considerare retorico, se non avesse concrete ricadute politiche: l’equivalenza degli opposti o “bispensiero” , come nella felice definizione di Roberto Ciccarelli, giorni fa sul manifesto.

Così, una delle costituzioni più democratiche, come la nostra, nata dalla resistenza al fascismo e al nazionalismo, viene associata alle peggiori ideologie di patria, difese identitarie, chiusure comunitaristiche. Allo stesso modo, il gruppo parlamentare appena formato pensa di poter contrabbandare come “libertà” un lungo elenco di divieti: no alle unioni civili, all’aborto, alle adozioni omogenitoriali, al fine vita, all’educazione di genere nelle scuole, no a tutti i processi di liberazione dalla cultura patriarcale dominante da millenni nella nostra come in altre civiltà.

Già negli anni 80 del secolo scorso, lo psicanalista Elvio Fachinelli parlava della destra e della sinistra come di “una coppia simbolica esaurita”, e, ancora prima, il movimento delle donne aveva riscoperto la politicità di tutto ciò che è stato visto come “privato” e come tale consegnato all’immobilità delle leggi naturali: sessualità, maternità, amore, legami famigliari, ecc. Era bastato spostare lo sguardo dalla vita sociale al “vissuto” che passa quasi innominabile nell’esperienza del singolo, per scoprire la labilità dei confini con cui si è creduto di contrapporre e differenziare il destino dei sessi, il rapporto tra natura e cultura, corpo e pensiero, individuo e collettivo, barbarie e civiltà.

Far parlare il retroterra che la storia ha allontanato da sé e sepolto nelle sue viscere, aveva significato far emergere legami, contaminazioni, zone di indistinzione tra realtà che si vorrebbero rigidamente separate. Non sono stati solo i ruoli e le identità sessuali a scomparire come nebbia al sole, riportati dentro quell’intreccio di biologia e storia, sentimenti e ragione, che è il singolo, maschio o femmina che sia, ma ogni processo di differenziazione volto a circoscrivere qualità “autentiche”, territori inviolati, centralità indiscusse.

Ma se per i movimenti non autoritari degli anni 70 del secolo scorso, l’uscita dalla “tragica necessità del dualismo” si accompagnava all’idea dei “nessi” che ci sono sempre stati tra un polo e l’altro, lo sviluppo successivo ha visto invece affermarsi in forma sempre più magmatica la personalizzazione delle istituzioni pubbliche. Il consenso di un leader si misura oggi sulla sua vicinanza e famigliarità con l’uomo comune, sulla condivisione delle stesse licenziosità di linguaggio, sull’uso delle stesse tecnologie comunicative, come i social network.

Le viscere della storia sembrano aver preso il sopravvento su tutte le costruzioni, democratiche o conservatrici, con cui la storia ha tentato di tenerle sotto controllo. Oggi si scopre che l’inconscio collettivo – l’eredità psichica arcaica rimasta a lungo sepolta nella zona più oscura della vita dei singoli- è reazionaria, ferma nel tempo come le leggi naturali.

Nessuna meraviglia perciò se, di fronte a un imponente fenomeno migratorio, che ha portato lo “straniero”, il diverso, a farsi prossimo, a prendere contorni reali, a manifestare desideri di somiglianza, si è visto emergere quel riflesso antico di paura e respingimento di chi appare sconosciuto all’orizzonte, visto come il “selvaggio”, il “non uomo”. Poteva andare diversamente? Non sono mancate in passato e sono presenti tutt’oggi culture innovative, movimenti, gruppi, che nella riscoperta dei “rifiuti” della civiltà, in quelli che Virginia Woolf chiamava “storie non registrate”, “oggetti seppelliti”, hanno visto aprirsi prospettive nuove, esperienze dell’umano, le più universali, da ripensare e restituire alla storia, a cui per altro hanno sempre appartenuto.

Ricorre quest’anno il cinquantenario di quella stagione “breve, intensa, esclusiva”, per usare sempre le parole di Fachinelli, che è stato il Sessantotto. I soggetti “imprevisti”, o se vogliamo i nuovi “barbari”, furono allora gli studenti e le donne. Insieme a loro fecero irruzione sulla scena pubblica esigenze radicali, in quel momento “impossibili” e proprio per questo destinate a ripresentarsi. Possiamo sperare che nell’attuale ritorno a valori tradizionali ci sia non la replica cieca di un passato, di cui purtroppo già conosciamo la distruttività, ma una ripresa aperta a nuove soluzioni?