Uno strano destino condiziona la discussione pubblica sulla Rete. Ne vengono registrati i cambiamenti, ne è sottolineata la geografia dei poteri, l’emergere di alcune piattaforme digitali, i conflitti. Ma poi, quasi come in un cerchio che si richiude su se stesso, il centro della scena è occupata dalla solita domanda: il world wide web è la desiderata terra promessa della libertà? oppure, all’opposto, è una tecnologia che opprime le vite di uomini e donne? Un quesito che prevede risposte nette, dentro uno schema binario che soddisfa solo chi crede che il web sia solo una tecnologia che risponde alle stesse logiche che hanno accompagnato la diffusione della stampa, del telefono, della radio e della televisione.

Lo schema è dunque quello degli «apocalittici» e degli «integrati», quasi non fossero passati gli anni che separano i saggi di Umberto Eco che affrontavano le diverse attitudini di intellettuali e consumatori culturali rispetto l’industria culturale da un presente dove opinion makers cercano di risalire la china della perduta autorevolezza mandando tweet ogni sei, sette minuti, dispensando pensieri su come va il mondo e di quanto sia pericolosa la vita dentro lo schermo. C’è da registrate, tuttavia, un altro quesito che ha tenuto banco da pochi anni: cioè se la Rete favorisce una stupidità di massa o, all’opposto, se è una tecnologia che potenzia le capacità cognitive dei singoli.

Il primo studioso che ha avanzato l’ipotesi della stupidità di massa è sicuramente Nicholas Carr, che ha messo l’accento sulla delega alle tecnologie digitali di «svolgere» azioni «intelligenti», oltre il calcolo. Carr concentra infatti l’analisi su come i social network e i motori di ricerca esproprino i singoli della capacità di stabilire connessioni, di stabilire associazioni, operando tuttavia una riduzione del campo delle possibilità. Su questa tendenza a standardizzare, omogeneizzare si è concentrato anche il ricercatore delle realtà virtuali Jaron Lanier, nella sua corrosiva critica della Rete in quanto medium che inibisce, più che favorire innovazione e creatività. Sul fronte opposto le milizie schierate in difesa dell’idea che la Rete rende liberi e più intelligenti sono numerose. Tra i nomi noti vanno segnalati Nicolas Negroponte, Clay Shirky, nonché le truppe scelte dell’anarcocapitalismo.

È in questo contesto che si muove il libro di Gianni Riotta Il web ci rende liberi? (Einaudi, pp. 151, euro 18). La risposta che l’autore fornisce è interlocutoria ed è racchiusa in alcune frasi dedicate al tramonto della società incardinata sulle relazioni tra le classi, tra i generi sessuali, tra le confessioni religiose, insomma sulle forti appartenenze di gruppo. L’era in cui stiamo vivendo è quella degli individui che, forti delle possibilità offerte dalle tecnologie possono esperire inedite possibilità di relazioni e di autorealizzazione. Ma da qui alla libertà il passo non è tuttavia breve. Per Gianni Riotta, serve una massiccia dose di consapevolezza e responsabilità per parlare davvero di libertà, perché le tecnologie sono da considerare una protesi di uomini e donne. Possono cioè consentire di accrescere le potenzialità cognitive, facilitare la mobilitazione sociale, alleviare dalla fatica del lavoro, ma possono anche diventare fonte di anomia e alienazione.

[do action=”citazione”]La consapevolezza è prerogativa dei singoli, la libertà invece è condizione collettiva. Per questo, il libro rimane imprigionato proprio nella Rete che voleva spiegare[/do]

Il volume, in ogni caso, non è un saggio filosofico, né un testo di teoria dei media. Oscilla continuamente tra annotazioni sull’attuale rapporto con la Rete, ricordi sugli stadi d’animo seguiti alla «scoperta» e l’iniziale uso delle tecnologie digitali; e tra accattivanti diari di viaggio nel web e richiami, appunto, sulla discussione pubblica attorno a Internet. L’autore mette in evidenza l’impossibilità di dare una risposta netta alla domanda a cui il libro chiede di dare una risposta. C’è però in tutto il volume il richiamo a un andamento ciclico, appunto, di come le tecnologie modifichino la vita quotidiana. E di come, da sempre, cioè ogni tecnologia sia stata accompagnata da timori e da entusiastiche dichiarazioni sul loro potenziale liberatorio. È questa lettura del «sempre eguale» e «sempre diverso» che non facilita molto una analisi non consapevole, ma critica del presente digitale. La consapevolezza è prerogativa dei singoli, la libertà invece è condizione collettiva. Per questo, il libro rimane imprigionato proprio nella Rete che voleva spiegare.

Da questo punto di vista, il volume nulla dice delle tendenze confliggenti dentro il web, che continuano a condizionare il suo sviluppo. Gianni Riotta scrive che quella che sta accadendo è una rivoluzione, ma non si capisce né la realtà che viene «rivoluzionata» né il ruolo che la Rete ha in questa rivoluzione. In un passaggio del libro sono, ad esempio, citate le amare riflessioni di Jaron Lanier su come il web stia uccidendo la creatività. Per uno che ha presentato le realtà virtuali come la terra promessa, è l’ammissione quasi di una sconfitta. Ma è proprio Lanier che affronta quella spinta a standardizzare, a cancellare le differenze che è connaturata con le tecnologie informatiche. È questa la tendenza che va affrontata, perché ha una base materiale che non può essere rimossa. Lanier scrive che tutto ciò a che fare con una dimensione pressoché assente in questo volume: il web come contesto economico, dove gli oggetti che vengono prodotti sono si microprocessori, tastiere, mouse, video e programmi informatici, ma che entrano altre materie prime che attendono di essere lavorate: le relazioni sociali, la comunicazione, lo stare in società di uomini e donne quale caratteristica basilare dell’animale umano.

La socialità, dunque, assieme alla comunicazione deve esprimersi in un habitat che tende a standardizzare, ma anche a privilegiare le differenze. È questa la dimensione produttiva che spiega l’ambivalenza della Rete. Che ha necessità che sia libera, ma pure sottoposta a controllo; che favorisca l’espressione individuale, ma anche che «impacchetti» i singoli in dati aggregati, in quanto materie prime del modo di produzione veicolato dal Web. Temi che si impongono perché la Rete è diventata parte integrante della vita sociale, economica. Che, al di là di quanto afferma l’autore, non coincide con l’era degli individui, delle persone, ma è realtà che ha messo al lavoro la tendenza a stare in società della specie umana.