Crocevia millenario di genti e civiltà, la penisola crimeana sembra riflettersi nella letteratura russa sotto forma di cronotopo cangiante, dove l’immagine del giardino di delizie, spesso declinata nelle sue varianti più gaudenti e orientaliste, trascolora senza soluzione di continuità in quella di un sanguinario macello. Già nel 1855 un giovane ufficiale di artiglieria dell’esercito zarista, Lev Tolstoj, di fronte allo stillicidio consumatosi quotidianamente a Sebastopoli, aveva osservato come la città cinta d’assedio si fosse trasformata in una «strana commistione tra un luogo da favola e uno sudicio bivacco». Analoga sarà negli anni Venti la testimonianza di Osip Mandel’stam che, rievocando i mesi trascorsi in Crimea durante la guerra civile, osservava come al «corpo meraviglioso» del porto di Teodosia, «regina del Mar Grande», si fossero di recente «incollate le zecche della prigione e della caserma», mentre «centurioni che sapevano di cane e di lupo», ovvero i bolscevichi, si aggiravano inopinatamente per le sue vie.

Da Alusta
Non lontano da lì, nella pittoresca località di villeggiatura di Alusta, un altro scrittore, Ivan Smelev assisteva attonito, nello stesso periodo, all’inaudita violenza dello scontro tra volontari bianchi filozaristi e rivoluzionari dell’Armata Rossa, nonché all’inesorabile tramonto di ogni residuo di convivenza civile. Quell’esperienza traumatica fu da lui trasfigurata nel romanzo-epopea Il sole dei morti che, uscito in Francia nel 1924 e apprezzato da Thomas Mann, avrebbe visto la luce anche in Italia nel 1937, se l’editore Bietti non avesse deciso di bloccarne la pubblicazione, molto probabilmente per motivi politici. A tradurlo ora è Sergio Rapetti che ne cura per Bompiani una bella e scrupolosa edizione (pp. 400, € 20,00), rendendo giustizia alle allucinanti visioni palesatesi all’autore, nato a Mosca nel 1873. In queste pagine Smelev sottopone il suo stile sorvegliatissimo a una torsione espressionista, creando un testo polifonico che esplora tutti i registri del dolore, dall’elucub.razione malinconica al compianto funebre, passando per il vaneggiamento ossessivo e l’invettiva.

Mirabile l’attacco, memore di Tolstoj e della sua immedesimazione antispecista con il cavallo Chlostomer. In maniera non dissimile dalla omonima novella in cui il conte di Jasnaja Poljana oblitera la propria percezione del mondo a favore di quella ipotetica di uno castrone pezzato, Smelev lascia che a rivelarci l’ampiezza della frattura che si è aperta nella società russa all’indomani della Rivoluzione sia lo sguardo straniato di una gallinella bianca, perplessa perché il suo padrone non è più in grado di sfamarla. «La vita è bruciata. Della fiamma resta un nero fumigare. Guardo negli occhi solo gli animali. Ma neanche di loro ne restano molti», confessa l’io narrante che, a dispetto della sua vocazione di intellettuale, si dichiara pronto a «rompere l’ultimo legame che ancora mi tiene unito alla vita: le parole umane».

La grande eclissi
Eppure ne spenderà ancora parecchie per descrivere in accenti ora strazianti, ora cinici, la graduale eclissi di quel paradiso terrestre arroccato sulle ripide colline della Crimea meridionale, dove ogni specie vegetale o animale è identificata sì dal suo nome scientifico (le prime pagine sono tutte un florilegio di mele Calvilla, pere Marie-Louise e ambrati vitigni Sauternes), ma anche da amorevoli vezzeggiativi, a riprova dell’intenso rapporto instaurato dall’uomo con quella natura lussureggiante. Poco più in là, nei pressi di Yalta, Cechov aveva comprato nel 1898 una dacia in cui si riprometteva di tenere, in mancanza di ospiti, dei tacchini e dove curava il suo giardino dei ciliegi; non a caso, uno dei personaggi più memorabili del romanzo è il dottor Michail Vasil’ic, a sua volta idealmente imparentato con il gesuita Naphta della Montagna incantata. Stravagante e visionario, era stato il primo a piantare in Crimea un mandorleto; inutile dire che i suoi alberi non si riveleranno più fortunati di quelli cechoviani. Un’altra figura straordinaria è quella della ex nobildonna che si chiede se convenga davvero disfarsi della sua collana di diamanti comprata a Parigi per procurarsi una libbra di pane e allontanare così di poche settimana la morte. Quel prezioso monile, così come l’orologio da tasca acquistato dal dottore a Londra e appartenuto nientemeno che a Gladstone, non sono che le reliquie di una vita precedente – «ormai ogni cosa è nel passato e noi siamo di troppo».

Alle porte dell’Ade
Mentre gli animali domestici, «testimoni del nostro morire», muoiono a loro volta l’uno dopo l’altro di fame, oppure vengono rapiti e ammazzati da famelici vicini, perfino il sole sembra improvvisamente svuotarsi e coprirsi di una patina plumbea. Vero erede di Gogol’ e di Leskov per la maestria con cui sa rendere il linguaggio parlato, Smelev, che morì nel 1950 in Francia, ospite di un monastero ortodosso, richiama in vita la tradizione medievale del compianto funebre sulle disgrazie della terra russa. E, al contempo, avvalora il mito classico che situava nell’antica Crimea, o Cimmeria, una delle porte dell’Ade.