Il complotto al potere di Donatella Di Cesare (Einaudi, pp. 120, euro 12), che in parte sviluppa temi già colti nella precedente Vela Virus sovrano?, e allude più volte alla vocazione politica della filosofia – per richiamare un importante studio dell’autrice appena tradotto in lingua inglese –, viene ad aggiungersi a una riflessione urgente e indifferibile sul «complottismo». Lo attestano, quantomeno, il di poco precedente La Q di complotto di Wu Ming 1, e l’inaugurazione della newsletter Complotti! di Leonardo Bianchi, che già nel 2018, con La gente. Viaggio nell’Italia del risentimento, aveva toccato questi temi.
Di Cesare si muove su un doppio binario argomentativo: la natura del complottismo, e le passioni che lo sostanziano. Due modi della sostanza reale, potremmo dire con un non casuale taglio spinoziano: per un verso «il complottismo è la reazione immediata alla complessità. È la scorciatoia, la via più semplice e rapida, per venire a capo di un mondo ormai illeggibile». Al tempo stesso, sul rovescio del tappeto, «il complottismo coinvolge coloro che si sentono vittime del caos presente e del futuro angoscioso, condannati a una frustrante impotenza, ridotti a semplici comparse» rispetto a quei «giochi della politica» dai quali si sentono esclusi.

QUESTA ESCLUSIONE assume una tonalità escatologica: il nemico insidia non più una sola nazione, ma l’ordine stesso del mondo. Il conflitto non ha luogo fra soggetti o classi sociali, o fra Stati, ma «oltre i confini, in un ambito metafisico dove non c’è tregua, né compromesso, e neppure alcun limite all’esercizio della violenza».
In questa apocalisse a bassa intensità, alla complessità del mondo si sostituisce la macchinazione complicata, al sospetto come strumento di indagine critica sopravviene il suo opposto, la certezza: il complotto diventa un diversivo che crede di cogliere la realtà, e invece contribuisce a nasconderla. Le fantasie di complotto – su questo Di Cesare e Wu Ming 1 convergono – rafforzano quel potere che credono di combattere.
Qui potrebbe prendere forma una lettura del complottismo come irrazionalismo; sarebbe, seguendo la lettura di Popper rilanciata poi da Eco, un esito del disincanto, della totalizzazione della ragione che si afferma quando gli dei sono scacciati dal mondo: la sopravvivenza di un pensiero magico «malgrado, anzi, in antitesi alla razionalizzazione crescente. Si tratterebbe insomma di un fenomeno profondamente antimoderno, un ritorno irrazionale al passato».
Una tesi che Di Cesare non condivide, e che suscita più di una perplessità: non sarà, questo mondo disincantato, una rappresentazione un po’ troppo semplicistica, che ricorda un certo negativismo francofortese, e che ignora che il mondo attuale è comunque prodotto non da una sola forza di potere, ma da un complesso gioco di forze antagonistiche? Ed è proprio vero che gli dei e i miti hanno lasciato ogni spazio alla ragione? Per contro, questa razionalità di cui si tratta è tutt’altro che la tetragona onnipotenza di una ragione unica, come si sostiene nel mondo complottista dove la si chiama «lascienza»; al contrario, la razionalità tardomoderna non ha semplificato, ma complicato ancor di più il mondo, rendendo problematica la sua effettiva comprensione: «il mondo appare illeggibile.

LA SUA GRAMMATICA è astrusa, la sintassi sfuggente. Il mitico filo secolare, quello che Arianna aveva donato a Teseo per orientarsi nel labirinto, si è logorato – anzi, si è spezzato per sempre». Quel soggetto solipsistico che si percepiva autonomo e compiuto, padrone del mondo e centro dell’intreccio, è costretto a fare i conti con la propria strutturale inadeguatezza, una volta scoperto il suo essere senza mondo, per dirla con Anders (e col giovane Marx). Il soggetto «è smarrito. I nessi vengono meno. La visione si disgrega».
È qui che interviene l’àncora di salvezza del complottismo: «devono pur essere rinvenibili quei nodi che mantengono ancora l’ordito del tessuto» – basterà, dunque, cercarli. Ricorrere al complotto significa fuggire l’insopportabile sfida dell’inquietudine, la mutevolezza instabile del paesaggio: rifiutare ogni forma di estraneità, dall’altro da sé a quell’estraneo che abita dentro noi stessi. Significa rifiutare quella libertà che si fonda sul riconoscimento della nostra vulnerabilità, sul non poter bastare a se stessi, in nome di quel «libero arbitrio» (anche vaccinale) che rifiuta di porsi il problema dell’altro.
Resta che non basta denunciare la nudità del re, ricondurre le teorie del complotto ai criteri del vero e del falso: così facendo, non si coglie la sfuggente complessità del problema, e si finisce in un vicolo cieco. Di Cesare muove qui una critica all’anticomplottismo illuministico di Umberto Eco, la cui polemica contro l’irrazionalismo nei primi anni Ottanta sarebbe in realtà rivolta contro il pensiero radicale e sovversivo del decennio precedente. Le cose sembrano essere un po’ più complesse. La critica di Eco alla moda gnostica ed ermetica era in realtà rivolta a una facile (e poco controllata) vogue irrazionalista che preludeva all’abbandono di posizioni critiche. Non per caso, contro questa tendenza presero posizione anche Vegetti, De Giovanni, e lo stesso Toni Negri. Che peraltro Eco difese, e non furono molti a farlo, negli anni del «teorema 7 aprile».

RESTA VERO, per contro, che Eco sembra rappresentare bene l’idea che il complottismo sia un semplice abbaglio della ragione. A chi scrive sembra però che Eco debba essere considerato in primo luogo un semiologo, più che un brillante opinionista: e di buone semiotiche (non necessariamente, o non solo, quelle di Eco) abbiamo oggi bisogno. Eco direbbe forse che il semiologo è come il radiologo, al quale non può essere imputato di non curare il cancro: il che è vero, a condizione di ricordarsi che non è sufficiente la lastra che fotografa il tumore per combatterlo.
Per combattere quest’altro tumore, occorre tenere presente l’intreccio fra la depoliticizzazione del mondo, e il risentimento come passione politica; la difficoltà di leggere il corso del mondo, la crisi globale della visione progressista e dei progetti di emancipazione, la mancanza di un linguaggio politico in grado di restituire una speranza comune alla sofferenza del singolo contribuiscono a un risentimento divenuto forma di vita: «sotto questo aspetto il risentimento è una rivolta sottomessa. Si riduce infatti a un tentativo, a sua volta alienato, di superare l’alienazione, una scorciatoia per rovesciare i rapporti di forza». Ma se il complottismo è «un’arma di depoliticizzazione di massa», è solo con una ripoliticizzazione che si può combattere questo schema esplicativo totalizzante, opponendo al cinismo la cura dell’altro, in una relazione fra cura e giustizia, su cui ha scritto molto Elena Pulcini, uccisa dal virus nel più crudele dei mesi. Senza alcuna indulgenza, è necessario mettersi in ascolto per riconoscere che esso nasce «dalla paura e dall’isolamento del cittadino che si sente escluso dallo spazio pubblico»: uno spazio pubblico che va ricostruito e reso accessibile attraverso contronarrazioni e, al tempo stesso, pratiche solidali che ricreino il senso del comune e del futuro come fatto culturale.