Benché non abbia mai raggiunto lo status di altri autori del fantastico e dell’orrore accolti con maggior favore dalla critica, Howard Phillips Lovecraft è stato fra gli scrittori che hanno avuto l’impatto più decisivo sugli sviluppi del genere, e non solo in ambito letterario. La minuziosa cosmologia generatrice di incubi che ci ha lasciato è una inesauribile fonte di temi, motivi, figure e suggestioni, apparsi, in forme e incarnazioni diverse ma sempre riconoscibili, all’interno di film, serie Tv, videogiochi, musica. L’intuizione destinata ad assicurare a Lovecraft una schiera di appassionati, discepoli e imitatori (da Robert Bloch a Stephen King, fino al più lovecraftiano degli scrittori americani contemporanei, Thomas Ligotti) consiste nel suggerire l’esistenza di un terrore tanto grande da non poter essere compreso e men che mai descritto, una dimensione della paura senza argini, capace di far precipitare nella follia chiunque abbia la sventura di scrutare anche solo di sfuggita negli abissi che si aprono tra le sue pagine.

La genialità di Lovecraft si accompagna, tuttavia, a un’eredità problematica: come sottolinea una delle più recenti produzioni ispirate alla sua opera, la serie Tv Lovecraft Country, lo scrittore, in quanto ultimo rappresentante di una famiglia anglosassone del New England e fiero membro di quella che definiva «razza teutonica», fu strenuo sostenitore di inquietanti principi eugenetici e razzisti.

Nostalgie di un passato mai vissuto
Racconti come «Il richiamo di Cthulhu» e «L’ombra su Innsmouth» dimostrano con chiarezza come Lovecraft guardasse con aperto disprezzo alle «razze impure», rappresentandole nei suoi racconti attraverso personaggi a malapena umani e dediti ad abominevoli culti demoniaci. Per tutta la propria breve vita, guardò con preoccupazione ai suoi tempi, e non solo per via dell’evoluzione demografica degli Stati Uniti, che all’epoca della sua giovinezza erano ancora un’entità politica e culturale in via di consolidamento. Ad angustiare questo scrittore legato a una visione aristocratica della società e consumato dalla nostalgia per un passato glorioso che non aveva mai vissuto ma che contrapponeva idealmente alle rovine del presente, erano anche, e soprattutto, le incertezze epistemologiche legate al passaggio del secolo, incarnate (tra gli altri) dalla fisica dei quanti, dall’affermazione del darwinismo, dalla psicoanalisi freudiana e dalle rivendicazioni sociali di stampo marxista. Come afferma Alan Moore, scrittore britannico e appassionato studioso di Lovecraft, l’autore di Providence fu un «sensibilissimo barometro» dell’angoscia esistenziale e sociale della classe media bianca, eterosessuale e protestante in un’America (e in un mondo) in rapida e imprevedibile evoluzione.

Costretto ad abitare un’epoca ostile dai margini nei quali si era volontariamente recluso, Lovecraft trasfigurò il suo turbamento descrivendo orrori incommensurabili e trasformando il terrore dei tempi in un mondo barocco di tetre fantasie che, paradossalmente, gli erano di conforto nel disagio che lo accompagnò per tutta la vita. Una vita sostanzialmente priva di accadimenti, che l’autore compensava con un’attività onirica vivace, trovando spesso ispirazione per i suoi scritti nel mondo dei sogni. Influenzato sin da bambino dalla lettura dei tomi contenuti nella biblioteca del nonno materno, appassionato di storie gotiche e fantastiche, Lovecraft sognava regni lontani e creature impossibili, esplorando terre aliene avvolte da un’aura di atavico mistero.

È nel ciclo di Randolph Carter che l’aspetto più immaginifico e meno morbosamente terrificante delle sue fantasticazioni raggiunge l’acme: quattro racconti e un romanzo breve in cui si narrano le avventure del protagonista, mesto onironauta e alter ego dell’autore, nei paesaggi surreali della Terra del sogno. Raccolti in I taccuini di Randolph Carter (Einaudi, Le letture, pp. 248, € 19,00) nella nuova traduzione di Mario Capello per la cura di Marco Peano, che firma anche un’amorevole introduzione, i racconti di Carter rappresentano forse il lato meno conosciuto dell’opera di Lovecraft, ma ne costituiscono allo stesso tempo un tassello fondamentale per comprenderne appieno l’opera e il pensiero.

Al di là dell’universo soffocante degli incubi indotti dal mondo che rifiutava e dal quale veniva rifiutato, infatti, troviamo un piano letterario che, sebbene innegabilmente lovecraftiano nella tetraggine di fondo, condensa l’espressione più libera della fantasia dell’autore. Vi si rappresenta una terra nella quale fuggire, figurazione di un escapismo mai del tutto slegato da sottili inquietudini. Non vi troviamo l’assoluta disperazione dispiegata, per esempio, in «L’orrore di Dunwich» o in Le montagne della follia: piuttosto, e in special modo nella cavalcata mozzafiato di «La cerca onirica di Kadath l’ignota», vediamo riproposto l’archetipico viaggio dell’eroe filtrato attraverso una visionarietà bizzarra.

Come avviene anche in «La chiave d’argento», forse il più noto dei racconti di Carter, l’orrore non s’impone sulla scena, resta in ombra, sovrastato da una voce malinconica che racconta di incredibili avventure con il trasporto che si accompagna alla sofferenza per la propria umana finitezza. Anche i racconti più vicini alla produzione strettamente orrifica, «La testimonianza di Randolph Carter» e «L’innominabile», sembrano abbandonare la dimensione socioculturale che caratterizza i terrori dell’autore, presentandosi come appassionate rivisitazioni delle allucinate fantasticherie di cui lo scrittore si era nutrito durante l’infanzia. Ed è l’infanzia, infatti, l’oggetto dell’incurabile nostalgia che Lovecraft instilla in Randolph Carter, e insieme ad essa il piacere innocente di abbandonarsi alle fantasticherie più sfrenate sottraendosi alle insopportabili limitazioni della realtà con cui l’autore, sempre più isolato e tormentato da problemi personali ed economici, si rende conto di aver perso i contatti.

Scene perdute di sole e magia
Esattamente come Randolph Carter che, a trent’anni, scopre di aver smarrito quella chiave d’argento che gli garantiva l’accesso ai reami del sogno: a confermarlo è il terribile Nyarlathotep, entità demoniaca del pantheon creato da Lovecraft qui trasformato in un sacerdote inquietante ma benevolo, che incorona infine il protagonista come «arcisognatore», spingendolo a volgersi «indietro, fino alle brillanti, strane cose dell’infanzia e alle fuggevoli visioni, sature di sole e magia, che quelle vecchie scene – scrive – sapevano donare ai tuoi giovani occhi». I Taccuini di Randolph Carter raccontano il tentativo, costante e disperato, di ricongiungersi a un’epoca felice e, in definitiva, irrecuperabile. Solo per un attimo, l’orrore strisciante si apre per rivelare i paesaggi sconfinati dell’immaginazione più priva di vincoli. Non a caso, infatti, Marco Peano scrive nella sua introduzione al volume che Lovecraft «non venne salvato dalla scrittura, ma la sua scrittura non smette di salvare chi lo legge».