«Perché vedo molti giullari / che vanno dicendo e recitando / racconti che il mio cuore / rifiuta, che ragione non vuole, / se uno abbandona e lascia la verità / e del suo racconto fa una favola / questo non può essere accettato, / non va accolto in nessuna corte. / (…) / E a corte di re o di conte / nessun giullare racconti storie / se la menzogna vince il vero». Così Jean Renart nel prologo del suo primo romanzo, L’escoufle. Questa polemica contro i racconti «inverosimili» è una decisa e rilevante dichiarazione di poetica: rispetto ai grandi romanzi arturiani di Chrétien de Troyes, dove l’aventure è inscindibile dal meraviglioso, dal fiabesco, si rivendica la possibilità di una narrazione più vicina alla realtà, più vera. È quanto lui stesso farà nelle sue opere – L’escoufle, il Lai de l’ombre, Guillaume de Dôle – che lo impongono sulla scena letteraria francese dei primi decenni del XIII secolo come un maestro nel descrivere il costume, come un autore di grande raffinatezza e di indiscussa originalità.
Un’analisi a tutto campo, tematica e stilistica, troviamo nei saggi di Alberto Limentani, scritti tra il 1970 e il 1980 e ora raccolti nel volume Per Jean Renart e altri studi di letteratura medievale (Esedra, pp. XLI-297, € 25,00). Nell’Introduzione il curatore, Gianfelice Peron, motivando le ragioni della riproposizione di questi saggi, ripercorre tutto il percorso critico di Alberto Limentani (1935-1986), uno studioso prematuramente scomparso, che per una mirabile serie di opere – sui cantari fiabeschi, sulla cronaca veneziana di Martin da Canal, su Flamenca e la narrativa provenzale, sull’Entrée d’Espagne, sulla storia del medievalismo – può essere considerato uno dei maggiori filologi romanzi della sua generazione.
Nei suoi romanzi Jean Renart mostra una netta propensione a restituirci l’atmosfera della opulenta vita feudale dei suoi giorni, fatta di cacce, di amori e di canti. E lo fa giocando abilmente sugli intrecci, sul linguaggio, sui titoli stessi delle sue opere. L’Escoufle (Il milvio) rinvia al nome di un uccello da preda meno nobile del falco, che è il fulcro di tutta la storia. I protagonisti, Guillaume e la bella Aelis, figlia dell’imperatore di Roma, fuggiti di casa perché il padre di lei contrasta il loro amore, si aggirano in una foresta, quando un milvio, prendendola per un pezzo di carne, si butta sulla borsa di seta rossa di Aelis e se ne impadronisce. Guillaume, gettatosi a inseguirlo, si perde e Aelis crede di essere stata abbandonata. Dopo una lunga quête – la nobile fanciulla si guadagna da vivere facendo i più strani mestieri – i due alla fine si ricongiungono: Guillaume per vendicarsi del primo rapace, uccide un altro milvio e ne divora il cuore. Questo strano accadimento, di cui si parla a corte, farà sì che Aelis riconosca e ritrovi nell’«uomo del milvio» l’uomo amato.
Il Roman de la rose, detto anche Guillaume de Dôle, è tutto nel segno di una macchia in forma di rosa sulla coscia della bella Lienor, di cui Corrado, il giovane imperatore di Germania, senza averla mai vista, è innamorato. Il «villain» della storia, venuto a conoscenza del segreto – glielo rivela incautamente la troppo ciarliera madre della fanciulla – fa credere a Corrado di averla posseduta. Ma Lienor arriva in incognito alla corte e smaschera astutamente l’impostore. Happy end: la «fanciulla della rosa» sposa finalmente il suo imperatore. In tutti e due i romanzi – così la sottile analisi di Limentani – viene messo in atto come uno «smantellamento del narrativo» a tutto vantaggio degli oggetti, degli emblemi, intorno a cui si intrecciano, avventurosamente, i comportamenti dei personaggi, soprattutto delle audaci e coraggiose figure femminili. Jean Renart si diverte a relativizzare i suoi modelli – siano essi il «romanzo idillico» o l’ «amore di lontano» – e si muove con un atteggiamento ambiguo, impassibilmente ironico, «a un tempo simpatizzante e caustico».
Il suo capolavoro è il Lai de l’ombre, che Limentani tradusse nel 1970 per Einaudi, con il titolo di L’immagine riflessa, e di cui qui si riprende l’Introduzione. L’intreccio è meravigliosamente semplificato, si riduce a un dialogo accanto a una vera da pozzo. Il protagonista – non ha un nome – corteggia insistentemente una dama, bella, sposata e ritrosa, anch’essa senza un nome. La conquista con un gesto, con una punta di suprema cortesia: dona l’anello che lei ha appena rifiutato, a una rivale, gettandolo nel pozzo, ma la rivale non è altri che lei stessa, che la sua immagine riflessa nell’acqua. Davvero un raffinato, manieristico, «smantellamento del narrativo». Anche gli altri saggi del libro rivelano un forte interesse teorico, sia che discutano il rinnovamento – tra semiotica, narratologia e critica storica e sociologica – degli studi sull’epica, sia che affrontino il delicato e così discusso problema di come tradurre i testi medievali – coinvolgendo filologi come Joseph Bédier, Paul Meyer, Ferdinando Neri, ma anche poeti, come Carducci, Pascoli, Diego Valeri –, sia che analizzino casi di intertestualità. Qui spicca, come esempio di vertiginosa sottrazione, l’episodio di Casella, nel secondo canto del Purgatorio: si può pensare che Dante avesse ben presente un contatto con il mito, con il personaggio di Orfeo – che è, come Casella, un meraviglioso musico – ma è solo una traccia e si potrebbe allora parlare di «rimozione della fonte», perché il personaggio-poeta, con le parole di Catone, ricaccia d’un colpo il valore della musica, come esperienza mondana, nei limiti che ormai gli attribuisce.
Il saggio più complesso e più suggestivo è forse Effetti di specularità nella narrativa medievale. Specularità rimanda esplicitamente alla «mise en abyme», espressione del gergo dell’araldica, dove indica l’uso di ripetere la figura principale dello stemma all’interno dello stemma stesso. Il racconto speculare è quello che si raddoppia, che si riflette. Così Chrétien de Troyes, nell’Yvain, inscena un sottile gioco di iterazione attorno alla fontana magica: «l’esito è nel secondo caso (narrato da Chrétien direttamente) il contrario del primo (fatto raccontato in prima persona da Calogrenant); a questi, assalitore sconfitto, subentra Yvain, assalitore vittorioso. Ma Chrétien non s’arresta qui, e introduce una terza realizzazione, largamente improntata di comicità, proprio perché speculare in parte dell’una in parte dell’altra delle precedenti; egli effettua ora lo spostamento di un personaggio, Yvain, dal ruolo di assalitore a quello di difensore».
Così, nell’Entrée d’Espagne. Rolando, dopo aver conquistato Gerusalemme e battezzato milioni di infedeli, arriva in Spagna e trascorre una notte in un romitorio, in compagnia soltanto dell’eremita che vi espia orribili nefandezze compiute in gioventù, e che spira all’alba assistito dall’eroe. Nell’ultima preghiera, per desiderio di Rolando, apprende dall’angelo, che ogni giorno gli reca il povero cibo, la sorte futura dell’eroe, e gliela rivela. «Si insedia così nella coscienza del personaggio ciò che il lettore già conosce: il destino di Roncisvalle». Così, ancora, nel Guillaume de Dôle, dove Jean Renart inserisce felicemente, nel contesto narrativo, dei testi lirici che lo riprendono, che lo duplicano, che lo riecheggiano. Fra testo primario e farcitura speculare c’è alterità di codice, ma continuità di tematica, le due esperienze tendono a integrarsi. È come «una galleria degli specchi».