Donna West è un architetto di Palo Alto che ristruttura

ville a Los Angeles. Nel suo lavoro, dice, privilegia sempre le soluzioni

originali sui componenti prefabbricati. “Sono una *maker* da quando ero

bambina e mi hanno portato all’*Exploratorium* di Berkeley. Quel museo

delle scienze mi ha trasformato”. Nella grotta che ha scavato sotto la

propria casa convertendola in abitazione dice che per questo è gravitata

verso una concezione “costruttivista” di architettura. “All’università ho

scoperto movimenti che applicavano la costruzione ‘artigianale’ al design

moderno, come Morphosis e Marmol Ratzinger, per i quali l’idea del

*fabbricare* è importante quanto quella del concepire.” Elliott Montgomery

e Chris Woebken sono designer che nell’ex cantiere navale di Brooklyn hanno

fondato la Extrapolation Factory, un consorzio progettuale che definiscono

un ‘cantiere futurista’ attrezzato con stampanti 3D che usano per

fabbricare artefatti del futuro alcuni dei quali sono esposti questo mese

al Museum of Arts and Design di New York come parte della *maker biennial.*

Alberto lavora come attrezzista polivalente per film ed effetti speciali

di Hollywood, quando non costruisce palchi per concerti rock. Si aggira con

una tuta perennemente macchiata d’olio per la sua casa/officina – un

capannone in un quartiere industriale di Los Angeles, in cui campeggia la

sua amata Harley. È una specie di corte dei miracoli di attrezzi,

materiali di recupero e grandi sculture di metallo che sforna senza sosta

con la fiamma ossidrica che usa anche per accendersi quantità industriali

di cannabis.

Tutti e tre si identificano come *makers, *parte di quel movimento fluido e

multiforme di “fattivi” che aggrega personaggi anche assai diversi ma

accomunati dalla passione per il creare, costruire – fare. Il termine è

andato emergendo come *meme* culturalmente significativo negli ultimi dieci

anni senza un vero evento fondativo, ma volendo indicare un utile punto di

inizio potremmo scegliere la prima pubblicazione di *Make Magazine*, la

rivista che dal 2005 in qualche modo si rivolge a questa variegate e

trasversale ideologia del fare che teorizza la creatività produttiva e

pratica la tecnologia dal basso. Chiediamo a Dale Dougherty, fondatore e

direttore di Make, cosa caratterizza il movimento. “Fondamentalmente i

maker si considerano produttori e costruttori creativi piuttosto che

semplici fruitori. In una cultura contemporanea che ci abitua a pensare a

ciò che possiamo comprare vogliamo invece essere artefici attivi. Se

vogliamo avere una voce in capitolo nel futuro dobbiamo innovare e questo

significa immaginare e costruire cose che non si possono comprare.”

L’innovazione originale è un valore costante di questo movimento che pur

radicato nel mondo *tech* e nella cultura “nerd” dell’era digitale, è

intrinsicamente critico rispetto all’imperante modello di iperconsumo

tecnologico. All’integrazione verticale dei colossi di Silicon Valley si

preferisce così un rapporto autogestito, atomizzato, anche anarcoide, con

una tecnologia radicata nell’impresa e nelle invenzioni dei singoli

collegati in rete. Da cui l’adozione delle stampanti 3D a simbolo della

*democratizzazione* tecnologica.

“Le stampanti 3D”, spiega ancora Dougherty, “ti permettono di progettare un

oggetto o scaricare un file e introdurre nel mondo fisico oggetti che non

sono mai prima esistiti. E permettono di ampliare una capacità che prima

era strettamente controllata da pochi, a moltissime persone”. Dunque una

riappropriazione della tecnologia che apre la prospettiva di “hackererare”

la filiera produttiva. “Una componente fondamentale dell’idea maker”

prosegue Dougherty, “è quella di ricombinare la tecnologia esistente e

adattarla per applicazioni ‘corsare’. Un sacco di gente non si accontenta

più semplicemente di seguire le istruzioni per l’uso stampate sulla

scatola”.

È un idea che sta al centro anche di *Makers, *un romanzo di fantascienza

scritto nel 2009 da Cory Doctorow, una sorta di bibbia maker come

*Neuromancer* di William Gibson lo fu per i cyberpunk. Doctorow è il

fondatore di *BoingBoing.net*, il sito aggregatore di info, news e storie

legate all’ambiente e la filosofia maker. Il libro, che lo stesso Doctorow

definisce “su un gruppo di gente che vuole *hackerare *hardware, modelli di

impresa e stili di vita per scoprire nuovi modi di stare felicemente al

mondo anche quando l’economia sprofonda”, comincia con l’acquisizione di

due aziende-dinosauro della old economy – Kodak e Duracell – da parte di un

imprenditore di Silicon Valley.

Fra fantascienza e documento programmatico, la storia segue poi la

conversione delle ex aziende in quello che uno dei personaggi definisce

“una rete di squadre autonome e cooperanti con l’abilità di creare miliardi

di piccole opportunità imprenditoriali sfruttate da persone intelligenti e

creative”. Non a caso uno dei primi progetti descritti nel libro è la

realizzazione di sciami microrobotici utilizzando le microchip recuperate

da bambole in disuso.

Il libro pu~o rammentare a tratti un manifesto di utopia liberista alla Ayn

Rand, anche se Doctorow preferisce definirlo una “parabola aspirazionale su

una incruenta rivoluzione industriale”. Nel romanzo si parla di un futuro

in cui “il capitalismo è destinato a collassare sotto il proprio peso,

lasciando il posto a sistemi di produzione *artigianali. *Fautore

dell’ampliamento del modello del software *open source* alla manifattura

tecnologica, Doctorow articola così alcune istanze maggiormente “politiche”

del movimento maker formulando una critica diretta alle dinamiche della

globalizzazione. Nel suo blog fa spesso riferimento al ”mondo post-WTO” un

concetto ripreso anche se meno esplcitamente da molti altri.

“Non so se si tratta di una critica esplicita” dice Dougherty a proposito.

“Sicuramente si tratta di esplorare alternative ad un mondo incarnato

dall’iPhone, l’oggetto talismano ‘progettato in California e costruito in

Cina’. I makers considerano che sia meglio integrare sviluppo e produzione

invece di spedire il lavoro a migliaia di chilometri di distanza.” Quindi

ripensare la delocalizzazione prodotta dalla globalizzazione? “Direi

proprio di si anche se non si può più pensare di tornare a dinamiche del

passato. Non si tratta di ricreare le fabbriche di una volta, quelle che

potevano impiegare un intera città. La transizione da *impiego* a *lavoro*

è ormai inevitabile.”

Al problema “epocale” della trasformazione economica e del lavoro i makers

rispondono quindi con concetti di ispirazione tecno-liberista sempre

strettamente legati però all etos dell’innovazione e dell’iniziativa. Una

tecnologia “social” dove il controllo produttivo fa capo a una moltitudine

di individui-impresa collegati in rete piuttosto che a strutture

industriali verticali come quelle in cui Silicon Valley ha cooptato la

spinta innovative digitale. La rivoluzione industriale incruenta di cui

parla Doctorow aspira ad un lavoro post-post-fordista.

“La nostra idea è di partire dalla attuale tecnologia e da essa estrapolare

possibili futuri”, spiega Elliott Montgomery dalla Extrapolation Factory,

il cui lavoro si concentra sull’aspetto concettuale di innovazione.

cercando di focalizzare in workshop e istallazioni interattive come quella

del Museum of Arts and Design, una “fenomenologia” dell’invenzione. È

il *futuring

*che si concretizza nella descrizione o la produzione di oggetti

“possibili, probababili o plausibili”. “È un’operazione simile a quella

della speculazione fantascientifica ma noi vogliamo democratizzare questo

il processo immaginativo, allargarlo a tutti invece che lasciarlo in mano

di produttori cinematografici o esperti di think tank”.

Gli oggetti “possibili” prodotti dalla Factory si ricollegano anche alle

radici “artigianali” del movimento, agli artisti folk e piccoli inventori

che ne sono in qualche modo antesignani in quanto produttori di oggetti

originali, fuori dalle filiere “ufficiali”. Una cultura dell’ingegno che

risale all’*homo faber,* l’uomo artifice del proprio mondo attraverso l’uso

creativo degli strumenti. Una pratica che prosegue oggi nei laboratori

dell’MIT quanto nelle sculture cinetiche e macchine surrealiste di Burning

Man, sempre collegate ad una dimensione ludica e di apprendimento.

Le *maker faire* che quest’anno si terranno in oltre 120 paesi sono i punti

di aggregazione di questo movimento come lo sono i *maker spaces, *cooperative

autogestite da studenti e tecnofili appassionati per stimolare la

sperimentazione e il gioco tecnologico. “I garage dove smanettano gli

inventori sono un luogo fondamentale dell’innovazione” conclude Dougherty.

“I *maker spaces* vogliono essere garage condivisi e *social* dove nascerà

il futuro”.