La mitologia della musica è, un po’ come tutte le epiche, innamorata degli eroi che muoiono giovani. Nella loro prematura scomparsa rimane l’impatto di quello che hanno fatto, unito all’incredibile rammarico dell’inespresso, al mistero di qualcosa mai compiuto e alla mancanza perenne di quello che avrebbe potuto essere. Sono tutti sentimenti più che giustificabili, antichi come i poemi omerici, tuttavia questa malinconia per gli eroi perduti fa spesso dimenticare chi non se ne è andato ed è semplicemente sceso, per volontà o circostanze, dalla giostra del successo. È inevitabile pensare a questo quando si ricorda Sly Stone. Oggi ha ottanta anni e da un tempo quantificabile ormai come metà della sua vita è di fatto scomparso dal mondo della musica. Se la sua uscita di scena fosse stata più tragica, traumatica, oggi lo ricorderemmo grande come Jimi Hendrix, Marvin Gaye o come Bob Marley. Per alcuni aspetti è stato più pionieristico e grande di loro. Ma la sua carriera si è spenta lentamente con un declino spesso paragonato a quello di Syd Barrett e Sly Stone non è parte di un Pantheon a cui in realtà dovrebbe appartenere.

GLI INIZI
È stata pubblicata in queste settimane l’attesa autobiografia Thank You (Falettinme Be Mice Elf Agin): A Memoir firmata dallo stesso Sly Stone con Ben Greenman, autore che in passato ha già lavorato a memoir di musicisti iconoclasti come Gene Simmons, Brian Wilson e George Clinton. Il libro è pubblicato negli Stati Uniti da Auwa, un nuovo marchio editoriale diretto da Ahmir «Questlove» Thompson, noto batterista dei The Roots. Il titolo riprende una hit datata 1969 che raggiunse il primo posto della classifica pop americana e che, si narra, ossessionò Miles Davis al punto da indurlo non solo a farla ascoltare a ripetizione alla sua band, ma anche da convincerlo a cambiare l’intera strumentazione dei suoi musicisti per poter carpire il segreto di quel suono così potente e contagioso. Rivedendo i vecchi filmati di concerti di Stone di quell’epoca sembra che quel segreto sia stato a tutt’oggi rivelato davvero a pochi eletti.
Nato nel 1943 in Texas con il nome di Sylvester Stewart, si trasferì con la famiglia nei pressi di San Francisco, e come tanti artisti neri iniziò dal gospel e dagli spiritual esibendosi nelle celebrazioni religiose, venendo però anche sedotto da interpreti come Little Richard, Ray Charles o Sam Cooke. «Erano cantanti provenienti dalla chiesa – ricorda oggi l’artista – che mantenevano qualcosa di sacro e aggiungevano ciò che era terreno. La combinazione mi colpì molto». Sylvester diventò Sly Stone in una radio a onde medie della Bay Area, dove da dj, rompeva gli schemi trasmettendo successi soul non dimenticandosi di Dylan e del rock inglese che stava conquistando il mondo. Iniziò a produrre musica per l’etichetta Autumn Records ed esordì in proprio come Sly and The Family Stone, facendosi accompagnare dal fratello Freddie alla chitarra e circondandosi di una formidabile band in origine composta da nove elementi. Ricorda oggi Stone nelle sue memorie: «Eravamo bianchi e neri insieme, maschi e femmine. Era una cosa grossa ai tempi. Ed era stato fatto di proposito». Il loro primo successo fu Dance to the Music, ma la vera consacrazione arrivò con il classico Everyday People che fa parte del quarto album della band, lo storico Stand!, uno dei più importanti dischi della storia del pop. L’energia con cui suonavano non aveva eguali, Sly durante le incisioni si spezzò un dito contro i tasti del pianoforte. «La Famiglia Stone» si era inventata una musica propria, un ibrido di rock’n’roll, rhytm’n’blues, psichedelia, jazz e funk condito con lo spirito utopistico e ribelle di quella generazione. La loro versione live di I Want to Take You Higher fu uno dei momenti epocali di Woodstock.
Sly divenne non solo una delle figure più originali, appariscenti e influenti della musica dalla fine degli anni Sessanta alla metà del decennio successivo, ma ispirerà, anche nel modo di presentarsi, generazioni di artisti e interi movimenti musicali dal funk rock, alla disco dance, dal soul rock fino all’hip hop. «Un potpourri di generi, nuovi orizzonti musicali e di futuristica trance nera – scrisse all’epoca Rolling Stone -. Completa il ciclo che affrontano tutti i musicisti pop di successo. Dalla mentalità da classifica a qualcosa di complesso, ma sempre commerciale». «Aveva la sensibilità della strada, la qualità della chiesa e la classe di un artista Motown. Era tutto quello in una persona», ha ricordato un altro eroe del funk, George Clinton.

MATRIMONIO BIZZARRO
L’apice di tutto questo fu il suo bizzarro matrimonio celebrato al Madison Square Garden di New York il 5 giugno 1974 con il conduttore di Soul Train Don Cornelius a fare da maestro di cerimonie davanti a un pubblico pagante. «Fu l’occasione per fare un concerto, venire pagato e sposarmi allo stesso tempo», rievoca nella sua biografia l’artista. Ma questo trionfo autocelebrativo e indubbiamente kitsch (agli intervenuti fu chiesto di vestirsi color oro) fu anche la certificazione di un declino artistico che era già iniziato. L’album che uscì quell’anno, Small Talk, fu il suo ultimo a entrare in classifica. Sly era già schiavo della droga e circondato da amicizie preoccupanti. Nelle sue session di registrazione, ricorderà Miles Davis, c’erano ragazze a disposizione, pistole e cocaina dappertutto. Il suo matrimonio finì perché il suo cane Gunn azzannò suo figlio, quasi uccidendolo. La band si dissolse, nel 1977 la sua casa discografica, la Epic, lo liquidò.
Arrivarono problemi legali per questioni fiscali e arresti per possesso di droga. Negli anni Ottanta arrivò anche il crack e il declino divenne oblio, inframmezzato da sfortunati se non imbarazzanti tentativi di rimettere insieme la carriera. In anni in cui la sua lezione era ben presente a superstar come Prince o Michael Jackson e in cui i primi rapper saccheggiavano i suoi ritmi e i suoi groove, Sly Stone era solo un nome sbiadito nelle pagine di cronaca o nelle rievocazioni musicali. La sua vita si consumava tra droga e manie di persecuzione che portarono a cause legali contro manager e case discografiche. Nel 2006 comparve claudicante sul palco dei Grammy Awards. Era irriconoscibile: la sua leggendaria pettinatura afro era stata sostituita da una vistosa cresta bionda punk. Nel 2007 passò da Umbria Jazz, ma rimase sul palco per meno di mezz’ora. Nel 2011 i tabloid americani lo trovarono a vivere in un furgone. «Io però cercai di spiegare loro la differenza tra vivere in una macchina per scelta e viverci perché non hai alternative», si difende oggi Stone.

IL SOPRAVVISSUTO
In molti hanno visto in lui il sogno spezzato degli anni Sessanta: la gioia della contaminazione culturale, una creatività e un’energia senza limiti, viziata e corrotta dalle seduzioni del successo, dalla violenza e dalla droga. «La musica per me non aveva colore – ricorda nelle sue memorie Sly -. Vedevo solo note, stili, idee». Ottantenne e sempre più fragile, l’artista, dopo infiniti cicli di dipendenza e riabilitazione, si è riconciliato con i tre figli e con il suo libro di memorie cerca di riprendersi un pezzo di storia della musica che gli appartiene. A suo modo è un sopravvissuto, anche se in molti non se ne sono accorti. «Quando ho saputo che Sly Stone avrebbe pubblicato il suo libro di memorie, la mia prima reazione è stata di sorpresa: pensavo che fosse morto da tempo», ha scritto candidamente il critico letterario del Guardian recensendo il libro.

LA PARABOLA DELLE VOCI SPEZZATE, UN’ODISSEA BLACK
L’eccentrica parabola di Sly Stone, passato dal successo al quasi completo oblio non è una storia unica nel mondo della black music. Le vicende di musicisti e interpreti neri che si sono eclissati dalla vista del grande pubblico sono numerose e molto diverse tra loro. In alcuni casi si tratta di circostanze sfortunate, in altri di scelte di vita, ma in altri ancora la questione è legata alla oggettiva difficoltà per un afroamericano di confrontarsi con un’industria musicale legata a pregiudizi, incline a vedere gli artisti neri come inevitabilmente problematici, «a rischio» e destinati a carriere brevi. Emblematico è il caso di Nina Simone. Nel documentario Summer of Soul, premiato nel 2022 con l’Oscar, la vediamo sullo stesso palco di Sly and The Family Stone nel ’69 per l’Harlem Cultural Festival. Era una delle star più affermate di quella incredibile line-up composta anche da Stevie Wonder, Gladys Knight, Mahalia Jackson e B.B. King. Musicista di estrazione classica, ma cresciuta nei jazz club, aveva riempito nel 1963 la Carnegie Hall di New York realizzando il suo sogno di essere la prima pianista nera a essere in cartellone nel prestigioso teatro. Tuttavia scelse una strada in salita per un’artista nera, sposando la causa dei diritti civili e delle proteste razziali. Nel 1964, sempre alla Carnegie, presentò (per poi pubblicare su disco) una delle più feroci canzoni di protesta dell’epoca, Mississippi Goddam, esplicita e rabbiosa invettiva contro le violenze nei confronti dei neri. La sua passione per la causa dei diritti civili diventò sempre più intensa e scelse la strada più radicale avvicinandosi alle posizioni di Malcolm X. Nel 1967 cambiò casa discografica, venne sempre più vista come un’artista scomoda, alcuni suoi dischi vennero pubblicamente distrutti o rispediti al mittente. Nel 1970 decise di trasferirsi alle Barbados. Il marito e manager, Andrew Stroud, che aveva cercato di impedire la sua svolta impegnata conoscendone le possibili conseguenze, rimase negli Stati Uniti. La carriera di Nina Simone fu compromessa per sempre. Le uscite discografiche divennero sempre più sporadiche, il declino professionale coincise con problemi mentali e con l’abuso di alcol. Dalle Barbados, andò in Liberia, per poi approdare in Europa e girovagare per i jazz club tra Londra, la Svizzera e l’Olanda; spesso i suoi concerti erano sconfortanti esibizioni di pochi minuti. Tornerà in patria sempre più di rado e sempre più svogliatamente. Nel 1987 una sua versione dello standard jazz My Baby Just Cares for Me venne usata in uno spot della Chanel e la riportò in classifica. Era una incisione del 1958. Era una voce che veniva dal passato da un’artista che il grande pubblico aveva dimenticato. Nina Simone morirà in Francia nel 2003 dopo una lunga lotta per combattere un cancro al seno.

RISCOPERTE
Verso la metà degli anni Ottanta, complici anche le pubblicità televisive, il mercato discografico riscopriva i classici della black music della fine anni Cinquanta e degli anni Sessanta. Non avvenne solo per Nina Simone, ma anche per Jackie Wilson. Tra il 1986 e il 1987 la sua Reet Petite andò al numero uno della classifica in Gran Bretagna diventando una hit in tutta Europa. Il video della canzone, un’animazione in stop motion con una figura di argilla, fece epoca. Nessuno però in Europa sapeva chi fosse Jackie Wilson. La sua carriera era tragicamente finita più di dieci anni prima, il 29 settembre 1975, su un palco del New Jersey, quando durante un’esibizione fu colpito da un attacco cardiaco. Rimase in stato semi vegetativo per il resto della sua vita che si concluse nel gennaio del 1984. Reet Petite era stata incisa nel 1957.
La cantante di Chicago LaVern Baker era una presenza consueta nelle classifiche r&b negli anni Cinquanta e nei primi Sessanta, otto delle sue canzoni finiranno anche nel repertorio di Elvis. Nel 1966 stava vivendo un momento di declino artistico e di problemi personali con il marito. Scelse di partecipare a un tour musicale in Vietnam per intrattenere le truppe americane impegnate nel conflitto. Giunta nel sud-est asiatico si ammalò di polmonite e fu trasferita in un ospedale thailandese dove rimase ricoverata per mesi. Incredibilmente nessuno si occupò del suo rimpatrio. Di lei si persero le tracce. Negli States il marito la fece dichiarare morta. Nessuno si domandò più che fine avesse fatto. In realtà Baker era rocambolescamente approdata nelle Filippine, dove gestiva un club musicale per le forze armate americane nella Baia di Subic. «Tentai e ritentai di mettermi in contatto con mio marito, ma non ci riuscii mai… forse era lui che non voleva parlarmi», ricorderà l’artista. Ricomparve sulle scene solo dopo 22 anni di assenza, «resuscitata» per i quarant’anni della Atlantic Records. Da allora ha continuato a esibirsi e a incidere musica. È morta nel 1997 a 67 anni, nel 1991 aveva ricevuto la sua consacrazione, diventando la seconda donna dopo Aretha Franklin a essere introdotta nella Rock and Roll Hall of Fame.

L’ANTIDIVO
Meno travagliata la scelta di vita che fece nel 1985 Bill Withers, dopo una carriera a dir poco stellare iniziata alla fine degli anni Sessanta e scandita da classici come Lean on Me, Ain’t No Sunshine, Lovely Day, Use Me e Grandma’s Hands. Estraneo a ogni eccesso divistico, decise di lasciare il mondo musicale senza rimpianti. Pesò sulla sua svolta una relazione sempre più difficile e scomoda con le case discografiche, non disposte a valorizzare il suo talento e la sua voglia di creare musica originale. Uno dei suoi brani oggi più noti, Just the Two of Us, venne incisa, quasi per dispetto contro la sua etichetta, non come suo brano ma come collaborazione con un altro artista, Grover Washington Jr. «Non sono più motivato ad attirare l’attenzione su di me», dirà Withers, che tornerà sul palco solo per alcune esibizioni benefiche. È scomparso nel 2020 a 81 anni e aveva imparato a godere del fatto di essere diventato un famosissimo sconosciuto. In un’intervista ricordò un incontro in un ristorante di Los Angeles: «Alcune signore sembravano appena uscite dalla chiesa e si misero a parlare di una canzone di Bill Withers. Decisi di divertirmi e mi intromisi dicendo, “Sono io Bill Withers!”. Una di loro mi disse, “Impossibile! Sei troppo bianco per essere Withers”. Non mi credettero neppure quando feci vedere la mia patente».
In un anno in cui si celebrano i 50 anni dell’hip hop è giusto anche ricordare un patriarca del genere, assai trascurato in quest’anno di rievocazioni. Il newyorkese Kurtis Blow fu il primo rapper della storia a firmare, nel 1979, per una major discografica e il primo a raggiungere il disco d’oro. Convinse addirittura Bob Dylan a cimentarsi in un rap nel suo brano Street Rock. Un vero pioniere. La sua carriera finì quando l’hip hop stava diventando un fenomeno globale. Troppo «old school», troppo «pulito» e poco adatto per la nuova veste che il genere stava prendendo. Kurtis, cresciuto nell’ambiente criminale di Harlem, non ne voleva sapere della svolta gangster della scena. «Ero esausto e mi trasferii in California – dirà in un’intervista -, ero pronto a ritirarmi. La musica era cambiata, il pubblico era cambiato. Non ascoltavo più musica quando arrivarono gli N.W.A., erano troppo duri. E fare il gangster non era roba che faceva per me». Kurtis Blow sporadicamente ricompare in qualche tour di rievocazione, ma ha preso un’altra strada. Da anni è un ministro del culto. Il reverendo officia delle messe rap presso la Greater Hood Church, la prima chiesa nera ad Harlem. Dice: «Voglio essere un uomo di integrità. Un uomo di dio che ama aiutare il prossimo». Per alcuni il viale del tramonto è solo una rinascita.