L’ultima volta in ordine di tempo che via Padova – si, la strada di Milano – è salita agli onori delle cronache è stata lo scorso novembre, a seguito della sparatoria avvenuta in zona piazzale Loreto e dei relativi commenti rilasciati dalle autorità, che su per giù indicavano un’unica via, qualcosa che in breve potremmo approssimare così (senza sbagliare di tanto il bersaglio): più forze dell’ordine. Ora, tralasciando il ginepraio di alcune possibili discussioni, una cosa rilevata sicuramente interessante è stato l’automatico accanimento mediatico-politico nell’associare – come da un po’ di tempo a questa parte – la via in questione con una sorta di quintessenza del male sociale. Sarà vero? Sarà falso?
Come sempre la realtà è poco permeabile a giudizi netti, e quindi si, via Padova non è sicuramente una via facile in cui vivere, tanto è piena di problematiche – rovesciamo però l’assunto: diteci voi se non ci sono milioni di situazioni del genere in Italia e nel mondo, e poi: quale strada si può dire sicura al cento per cento? – ma allo stesso tempo è anche una zona, diciamo, «socialmente non chiusa» di Milano, o quantomeno non come altre, nonostante le tendenze a «ghettizzarla» in questi anni (se può bastare una testimonianza personale, chi qui scrive vive attualmente in via Padova).
A questo punto è chiaro che per rendersi un po’ conto di come funzionano le cose il primo suggerimento sarebbe l’invito a fare una passeggiata lungo questa via e parlare con un po’ di gente che ci vive. Ma se per qualche ragione non si può fare in prima persona, suggeriamo di affidarsi a terzi. Proprio a Milano dal 24 febbraio sarà possibile vedere Milano, Via Padova, l’ultimo film di Antonio Rezza e Flavia Mastrella, le cui proiezioni accompagneranno gli spettacoli teatrali in città del duo. Non un classico film di denuncia sociale – in fondo l’arte non denuncia un bel niente, eccetto ipocrisia e stupidità, come la loro opera ci dice da anni. È semmai un film-documento, a tratti molto comico, e che per tratti inaspettati potrebbe persino ricordare qualcosa di certo situazionismo. Quanto segue è frutto di una conversazione con il duo e della visione del film.
L’INTERVISTA COME PERFORMANCE
Per chi ha familiarità con l’opera di Rezza e Mastrella Milano, Via Padova potrebbe essere definito come una sorta di episodio lungo in stile Troppolitani, il programma per la televisione – Rai3 – che andò in onda tra il 1999 e il 2000 (citando Wikipedia, «Si tratta di interviste a corpo libero fatte e condotte da Antonio Rezza» che «con un piccolo microfono attaccato al dito indice, si aggira in luoghi molto frequentati (quasi esclusivamente a Roma) ripreso dalla sua socia Flavia Mastrella e pone delle domande assurde ai passanti, per innescare discussioni surreali»).
In questo caso è sempre Antonio Rezza che va «a corpo libero», su e giù per un buon tratto significativo di via Padova – l’immagine-metafora potrebbe essere quella di un corpo che va «al galoppo» (ritmo serrato, pericolo in corsa) – fermando passanti, italiani e stranieri, ponendo le sue «domande assurde», con al seguito un improvvisato accompagnatore-interprete. Nel film molte di queste domande ruotano attorno alla vita quotidiana nella via, con il rapporto tra italiani e stranieri extracomunitari come motivo portante, e tutto questo avviene, in genere, tramite una discussione non solo «surreale» nel suo sviluppo ma anche esilarante. In una parola: comicità, nella sua azione destabilizzante. Come funziona? Qui vale la pena segnare – per quanto possibile – alcuni punti importanti, e quindi dire qualcosa sul modo di pensare la forma dell’intervista secondo Antonio Rezza e Flavia Mastrella. In questo le «tecniche del corpo» di lui sono fondamentali: Rezza irrompe nello spazio dell’altro con fisicità, alle volte inseguendo o braccando le persone, e questo innesca come al suo solito un dinamismo dentro una situazione che per sua natura è culturalmente codificata come statica – qui la nostra percezione è aiutata da un montaggio che in alcuni momenti tende a privilegiare stacchi frequenti e ravvicinati tra loro. Inoltre, nonostante il film sia in parte come una inchiesta, Rezza non rifà il «personaggio» del giornalista, perché il suo «atletismo affettivo» mira semmai a de-formare certe scene-tipo – per esempio quelle da infotainment – e stabilire il contatto intervistatore-intervistati tramite elementi, per così dire, extra-verbali. Poi c’è la parola e quindi i temi: razzismi veri e presunti; la Chiesa senza fedeli; i musulmani senza moschea; l’immigrazione; il mercato del sesso e molto altro. «È un film che fa ridere in modo viscerale su cose agghiaccianti». Attraverso una conduzione delle interviste dove il ragionamento sulle situazioni tende allo spiazzamento logico delle riflessioni, Rezza cerca di rivelare l’intimità degli intervistati provando a mettere sistematicamente in crisi l’immagine che questi hanno di loro stessi e, anche, in relazione agli altri.
RACCONTARE LA STRADA
In che misura si può parlare di situazionismo per questo film? Non per i codici estetici, ma – suggeriamo – per come fa emergere, quasi in modo imprevisto, obliquo, una strana somiglianza con uno degli sviluppi più interessanti di quel pensiero, la psicogeografia, e cioè (fonti alla mano) lo «Studio degli effetti precisi dell’ambiente geografico, disposto coscientemente o meno, che agisce direttamente sul comportamento affettivo degli individui».
Provando a dirla in maniera diversa, e senza scomodare modelli di riferimento come il lungometraggio Trattato di Bava ed Eternità (Isidore Isou, 1951), Milano, Via Padova sembra tendere ad sorta di deriva urbana situazionista, cioè a suggerire l’esperienza di una progressiva dislocazione dei sensi, dal momento che il film si struttura a partire da una topografia ben delimitata – i due hanno circoscritto e attraversato un’area specifica della via, dove è tra l’altro possibile riconoscere determinati spazi (Parco Trotter e altri) – ma allo stesso tempo lascia quasi la possibilità di una deriva del racconto a tesi, e quindi di uno scarto di senso, un’apertura tra i molti rischi del «tema sociale» e certi picchi della «risata criminale». «In questo lavoro abbiamo usato il canto per far manifestare agli extracomunitari la loro cultura, altrimenti con le parole diventa difficile, parlano poco», racconta Flavia Mastrella. È chiaro, si tratta di una scelta dovuta prima di tutto alla costruzione del lavoro, ma nulla vieta di leggere in questa stessa scelta quella occasione di cui si è detto. Se attraverso le interviste si rilevano la cultura del singolo e la natura della comunità – dentro una relazione che passa anche per l’incomprensione linguistica – il passaggio al canto rivela come sia sempre possibile andare al di là. E non è forse il canto, quando tutto sembra fermo, un modo di attraversare gli spazi?