Discreto, solido e illuminante, come le sue inquadrature cariche di umana attenzione ai cambiamenti della «sua» Africa, Abderrahmane Sissako è arrivato finalmente a Milano, Presidente di Giuria del Festival del Cinema Africano, e ci regala parole, tempo e saggezza prima di raggiungere l’affollatissima platea della Casa Del Pane per L’Ora del Tè, appuntamento quotidiano di conversazione con gli ospiti di questa 25esima edizione. Il trionfo internazionale di Timbuktu è ancora negli occhi grati del regista africano «un successo totalmente inaspettato, sapevo di aver fatto un buon lavoro ma non mi sarei mai atteso un tale riconoscimento». Parole che sottolineano ancora una volta il dramma della Jihad, barbarie senza fine che il regista conosceva bene molto prima di girare il film: «Sapevo ciò che stava accadendo in quella città e poi, a un certo punto, qualcosa in me si è ’acceso’ ed è nato il desiderio di ricavarne una storia per il cinema. La mia visione, simbolica, di Timbuktu era di un grande contenitore di religione e cultura ma anche di una città presa in ostaggio. Certo ho scelto di non mostrare tutto il carico di estrema violenza, perché spesso al cinema si corre il rischio di banalizzarla. Una scelta che non mi ha comunque impedito di denunciarne l’orrore».

Il cinema di Sissako non è nuovo a operazioni politicamente mirate: «è una scelta ragionata e anche se ciò che vediamo accadere è sotto gli occhi di tutti, l’importante è saper cogliere la folgorazione particolare del momento, confidando nella capacità dello spettatore di condivisione dello stesso sguardo.» Il regista diffida delle auto-definizioni: «Non è compito del regista dire quello che è», Sissako è indiscutibilmente una voce che sente la responsabilità di mostrare l’orrore ma al contempo rivela un’Africa che non conosce soltanto la sofferenza. Peculiare nel suo stiel la capacità di raccontare la realtà mescolandola alla finzione cinematografica, senza porsi mai limitazioni.

«Quando decido di girare un film non guardo lontano, osservo le cose che accadono davanti a me. Sono sempre in cerca di una narrazione universale, nel segno della chiarezza e della semplicità. Non cerco qualcosa di specifico, le cose arrivano da sole e quando questo succede, credo di essere in grado di riconoscerle per poi creare certe condizioni per trasformarle in storia. A partire dalla relazione che instauro con i miei attori non professionisti, un rapporto di fiducia con me e con l’atto cinematografico, una relazione discreta e segreta con la mia macchina da presa».

Il cinema di Sissako ribadisce con forza l’importanza della forma, del potere arcaico e devastante dell’immagine, «un’energia che va al di là del testo e della situazione drammaturgica. Il cinema è stato e sarà sempre immagine ed è questa la sua potenza.» In attesa di conoscere stasera i film vincitori di questa edizione, un ultimo pensiero, prima della partenza, sul nuovo progetto «Il mio prossimo lavoro è una storia che stavo già cullando ancora prima di Timbuktu, sarà un ’dialogo’ fra la Cina e l’Africa».