Mentre la diplomazia mondiale decide del futuro della Siria, lontano dalle luci degli hotel di Vienna si consuma il dramma dei civili. Sfruttati, puniti, uccisi da ognuna delle parti coinvolte nel conflitto. L’ultima strage si è registrata ieri – oltre 42 civili uccisi a Raqqa, la “capitale” del califfato Isis, in bombardamenti russi, secondo quanto riportato dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani – mentre al telefono il segretario di Stato Usa Kerry discuteva con il ministro degli Esteri russo Lavrov del lancio di negoziati tra governo siriano e opposizioni.

Da mesi il mondo assiste alle discussioni, alle prese di posizione delle super potenze, alle giustificazioni al sostegno di Damasco o dei gruppi armati che da quasi 5 anni lo combattono senza successo. Attori che si macchiano, però, di crimini identici. Che, forse, all’Occidente potrebbero apparire meno gravi se a compierli sono le milizie finanziate e sostenute perché facessero cadere Assad. E se contro Assad gli Usa hanno quasi scatenato una guerra, due anni fa, impedita solo dall’intervento russo, oggi sono le Nazioni Unite ad accusare indirettamente le opposizioni siriane di aver usato contro la popolazione armi chimiche. Iprite, meglio nota come gas mostarda, per il particolare odore che la contraddistingue: secondo l’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche è stata usata questa estate a Marea, nord di Aleppo. È la prima volta che si dimostra l’uso della sostanza, comparsa durante la Prima Guerra Mondiale e bandita nel 1925, in Siria.

«Pare che i suoi effetti abbiano provocato la morte di un neonato – si legge nel rapporto, consegnato un mese fa al segretario generale Ban Ki-moon – Non abbiamo ancora stabilito chi sia il responsabile». In quei giorni a Marea combattevano islamisti dell’Isis e ribelli siriani: alcuni civili curati da Medici Senza Frontiere ad Aleppo hanno raccontato di esplosioni e dell’uscita di gas giallo. Sarebbero stati 25 i pazienti soccorsi per aver inalato il gas. I potenziali responsabili sono due: o lo Stato Islamico o i gruppi armati anti-Assad. Il timore è che una delle milizie possa essersi impossessata della sostanza prima dello smantellamento dell’arsenale chimico del governo, che accettò di liberarsene in cambio della cancellazione dell’attacco Usa.

Nelle stesse ore veniva pubblicato un altro rapporto, stavolta redatto da Amnesty International: dal 2011 almeno 65mila siriani (di cui 58mila civili) sono scomparsi, desaparecidos del governo siriano. «Una campagna orchestrata di sparizioni forzate», la definisce l’associazione, secondo la quale tra le migliaia di civili scomparsi ci sarebbero anche 3mila minori. Spariti durante le proteste di piazza della primavera del 2011 e dopo, quando quelle manifestazioni finirono, sfruttate dai gruppi armati anti-Assad per trasformare la richiesta popolare di democrazia in una guerra civile contro il governo.

Le storie raccolte da Amnesty sono tantissime. Come quella della famiglia di Rania al-Abbasi e Abdul Rahman Yasin, scomparsi insieme ai sei figli. Dopo quattro anni nessuno sa dove siano, né perché siano stati portati via. Un sistema rodato, scrive Amnesty, a cui prendono parte i servizi segreti militari e politici e che oggi si è trasformato in un business: molte famiglie pagano cifre esorbitanti a soggetti più o meno legati al governo che dicono di poterli informare su dove i desaparecidos siano finiti, acquistano notizie per decine di migliaia di dollari e spesso non ricevono in cambio nulla.

Ma lo sfruttamento dei civili non si ferma alla Siria, al governo e alle opposizioni. Fuori dai confini siriani c’è chi viene reclutato in cambio della residenza: sono rifugiati afghani, scrive il The Guardian, riparati in Iran e trasformati dalla Repubblica Islamica in combattenti al fianco di Assad. Si tratta di afghani sciiti, a cui Teheran offre uno stipendio regolare e la residenza permanente in cambio dell’ingresso nell’unità Fatemioun, la seconda più numerosa nel campo di battaglia siriano dopo Hezbollah. Difficile indicarne l’esatta composizione, ma pare si attesti intorno ai 10mila combattenti.

Molti sono giovanissimi e si arruolano perché convinti della necessità di sostenere l’asse sciita. Tanti altri sperano invece di superare gli ostacoli burocratici derivanti dallo status di rifugiato che gli impedisce di accedere ai servizi pubblici, ad una vita normale. Un bacino enorme: sono un milione i rifugiati registrati in Iran, altri due milioni gli illegali.