Al Baghdadi è il nuovo califfo, successore del profeta Maometto. O almeno questo è l’appellativo con cui si è ribattezzato il leader ribelle di Al Qaeda e fondatore del movimento Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. Domenica il gruppo jihadista ha dichiarato la nascita del califfato tra Siria e Iraq, da Aleppo a Diyala, un lungo corridoio che inghiotte le province occupate e le pone sotto un unico governo, uno Stato islamico sul modello dell’impero ottomano, fondato sulla Shari’a e la figura del califfo ne diviene anche la guida spirituale.

In un video di 34 minuti, titolato “La fine di Sykes-Picot” (l’accordo segreto del 1916 tra Francia e Gran Bretagna per la spartizione del Medio Oriente) e tradotto in diverse lingue, il portavoce dell’Isil al-Adnani pone tutti i gruppi jihadisti del mondo sotto il controllo del nuovo Stato islamico. Un atto di chiara propaganda, che sottende però fattori significativi.

A spaventare non è tanto l’auto-dichiarazione dell’Isil, quanto la possibile adesione di tribù e comunità sunnite irachene e siriane, spinte dalla volontà di slegarsi ai poteri centrali di Damasco e Baghdad e, in questo secondo caso, alle discriminazioni subite nel post-Saddam. Dall’annuncio esce con prepotenza anche un secondo elemento: l’Isil dichiara guerra ad Al Qaeda. È ormai palese la faida interna ai gruppi qaedisti ed estremisti, attivi nella regione.

Abu Bakr Al-Baghdadi gode di una popolarità senza precedenti, a scapito del leader di Al Qaeda, Zawahiri, mentre la vecchia rete madre assiste alla crescita spropositata di un movimento con a disposizione un numero sempre più elevato di miliziani (se ne conterebbero oltre 10mila, ma sarebbero molti di più) e finanziamenti e equipaggiamento militare che mai Al Qaeda ha posseduto. Soldi e armi arrivati direttamente dal Golfo, impegnato negli ultimi tre anni a finanziare generosamente ogni gruppo radicale sunnita anti-Assad.

Una simile struttura potrà diventare punto di riferimento di quei regimi interessati più o meno palesemente alla spaccatura del fronte sciita e attirare, a scapito di altre realtà e della stessa Al Qaeda, nuovi adepti (un esempio: sarebbero ben 500 gli aspiranti jihadisti provenienti dalle città britanniche di Coventry e Cardiff, individuati prima della partenza per l’Iraq).

Il ciclone che attraversa il Medio Oriente assume dimensioni sempre più globali. Mentre Washington, costretta tra vecchie alleanze e strategie fallimentari, si limita a far volare droni sulla capitale e ad inviare 300 consiglieri militari, è Mosca ad agire: domenica in Iraq sono arrivati i primi cinque jet Sukhoi, un’altra decina giungerà nei prossimi giorni. Lo staff militare russo sta addestrando i piloti iracheni all’utilizzo dei velivoli che, dice la tv nazionale, saranno impiegati «per bombardare le postazioni jihadiste».

La Russia non ha mai nascosto interesse per la regione, nella quale è rientrata prepotentemente ponendosi come la diplomazia in grado di intervenire nella crisi siriana e perfetto alleato per l’asse sciita Damasco-Teheran. Mosca vuole assicurarsi il controllo del nuovo esecutivo: il futuro governo dovrà potersi rivolgere alla Russia per l’equipaggiamento militare e non solo alla tentennante Casa Bianca, che da parte sua annuncia l’invio solo in autunno di due F-16 e sei elicotteri Apache. Dall’altro lato, ritarda ancora i bombardamenti con i droni fino alla creazione di un governo di unità nazionale iracheno.

Risorse energetiche e territori strategici, un binomio che attrae più di un attore: da Israele – che ieri si diceva pronto a riconoscere l’indipendenza del Kurdistan (ma soprattutto del suo greggio) – all’Arabia saudita che continua a manovrare i fili dei gruppi islamisti attivi in Siria, fino all’Iran che ieri ha reiterato per bocca del vice ministro per gli Affari Arabi l’intenzione di intervenire più profondamente in Iraq.

Sul campo la battaglia prosegue e terreno di scontro è ancora Tikrit, città natale dell’ex rais e capitale della provincia di Salah-a-Din, da due settimane in mano all’Isil. Le voci che giungono sono contrastanti: l’esercito governativo, dopo una serie di bombardamenti e truppe dispiegate dallo scorso venerdì, ha annunciato di aver ripreso la città, ma testimoni sul posto parlano di una presenza ingente delle milizie islamiste e delle loro bandiere nere che sventolano sui tetti dei palazzi governativi. L’esercito di Baghdad controllerebbe, al contrario, solo la strada che dalla capitale porta a Tikrit e pochi quartieri in periferia.

Sul piano politico, oggi il nuovo parlamento iracheno si riunirà per individuare il nuovo premier: sabato sera le fazioni sciite di opposizione alla coalizione del premier, Stato di Legge, si sono incontrate e hanno deciso di presentarsi come blocco unico. Maliki potrebbe avere le ore contate.